Per molti fu una decisione folle. Per lui fu l'unica possibile. «Ero applaudito, famoso, adorato. Ma ero solo. Non avevo più famiglia. Il mondo della canzone? Non poteva essere la mia famiglia». Fu così che nel 1978, ad appena ventisei anni, Massimo Ranieri abbandonò quel mondo di cui era sovrano - ma in cui sentiva di perdersi - e ricominciò tutto da capo. Inventandosi attore di prosa, con un testo di Raffaele Viviani. Finché oggi (dal 16 aprile al teatro Argentina di Roma) Ranieri torna allo stesso autore. Quasi a dimostrare come - nel frattempo - sia riuscito a diventare grande nella prosa. E a mantenersi sovrano della canzone.
Trentacinque anni dopo Ranieri ritrova quel Viviani con cui tutto cominciò. Un cerchio che si chiude?
«Sì: almeno simbolicamente. Allora si trattò di Napoli chi resta e chi parte, per la regia di Peppino Patroni Griffi. Oggi di Viviani varietà, diretto da un altro grande, in una delle sue regie più belle: Maurizio Scaparro. È il racconto della traversata che sul piroscafo Duilio, nel 1929 - in piena crisi economica mondiale - portò Viviani da Napoli a Buenos Aires, e delle prove che la sua compagnia fece durante il percorso. Al primo atto le prove, al secondo lo spettacolo. Gli spettatori diventano essi stessi passeggeri di quel viaggio; e il testo (lettere scritte dal drammaturgo durante la traversata e brani di suoi vari testi), cucito assieme a molte, magnifiche canzoni dello stesso Viviani, si trasforma in un brillante portrait d'epoca. Anche quella - non a caso - disperatamente tesa a dimenticare una devastante crisi economica».
Oggi che il passato ritorna, ci avrà pensato. Dove trovò il coraggio di abbandonare tutto all'apice del successo?
«E per una strada esecrata da tutti, poi! Erano i tempi dei trionfi di Rose rosse e Vent'anni. Tu sei matto - scuotevano la testa discografici e colleghi -. Lasci tutto questo? Diverrai un fallito. Ma Patroni Griffi insisteva: Guaglio': tieni 'o teatro nel sangue. E nel mondo della canzone io ero infelice. Fra noi cantanti non c'erano rapporti veri: quell'ambiente non avrebbe mai potuto guarirmi dalla solitudine. In teatro, invece, vivi tutti i giorni, tutto il giorno, come in una famiglia. Se sono diventato uomo, lo devo al teatro».
Quali i suoi maestri di vita?
«Strehler, dal quale ho imparato il valore della disciplina. Bolognini e De Lullo, m'hanno insegnato la bellezza».
E dopo vent'anni di scena ai massimi livelli, Ranieri torna alla canzone e, con «Perdere l'amore», vince subito a Sanremo.
«Ma ancora una volta senza riprendere a cantare. Proprio capatosta, eh? Fortuna che il pubblico non dimentica: ha continuato ad amarmi lo stesso. E ancora oggi mi ama, che io canti oppure reciti».
Ancora al teatro lei deve un'altra clamorosa affermazione: il ritorno della prosa in tv, con le commedie di Eduardo De Filippo.
«Anche qui, che battaglia! Tutti mi dicevano: "Sei matto, la prosa in tv non si fa più da quarant'anni! La gente dormirà davanti!". Risultato: sei milioni di ascoltatori e uno share del 21 per cento. Al punto che ora mi sono montato la testa. E ho proposto a Raiuno le Tre sorelle di Checov. Troppo intellettuale? Ma Checov scriveva per il popolo! Vi interpreterei Verscinin e firmerei anche la regia. Spero che il direttore di rete, Leone, mi accordi la sua fiducia».
E infine la notizia teatrale più ghiotta: Massimo Ranieri in un classico shakespiriano assoluto. Il Riccardo III.
«Ci pensavo da venticinque anni. Anche qui dicevano che ero troppo pazzo (forse stavolta a ragione), non abbastanza brutto (ma Riccardo era bellissimo) nel migliore dei casi troppo giovane (ma Riccardo morì a trent'anni). Infine, quando due mesi fa hanno ritrovato le sue spoglie sotto l'asfalto d'un parcheggio, l'ho preso come un segno.
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