I più lo capirono subito di non avere una buona stella. Ma decisero, comunque, che quella stella era la loro. Del resto la stella dei vinti buona non lo è mai. Quella dei vinti della Repubblica sociale italiana, quella degli ultimi fascisti, fu particolarmente cattiva. Lo racconta bene, anzi se lo fa raccontare, Sergio Tau nel libro appena pubblicato da Marsilio: La repubblica dei vinti (pagg. 352, euro 18, con una prefazione di Pietrangelo Buttafuoco). Tau, che di mestiere fa il regista, ha raccolto nel corso del tempo - a partire dalla realizzazione di una trasmissione per Rai Radio 2 negli anni '90 - un numero impressionante di testimonianze dirette di chi tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 ha militato dalla parte sbagliata della Guerra civile.
Il volume di Tau, che è il risultato di un lavoro davvero lungo e meritorio di raccolta, è pura memoria, testimonianza. Qualche vestale del politicamente corretto, c'è da scommetterci mugugnerà comunque, ma davvero il libro è essenzialmente documentale. Contiene la versione dei «ragazzi» e delle «ragazze» di Salò ed è, quasi sempre, una versione senza acrimonia, un semplice «siamo esistiti anche noi e questa è la nostra storia». Come spiega bene Pietrangelo Buttafuoco nella prefazione: «Formati ad una certa idea della vita, gli italiani di quella guerra - quelli di tutto quel grande torto - sono come gli eroi di Eschilo... Il sentimento diffuso li vuole estranei e comunque espunti da ogni edificante narrazione. La loro memoria neppure tra le mura domestiche - nella cerchia dei familiari - può custodirsi. Nel mare magno di tutti i torti, il loro grande, pazzo maledetto epos non reclama di una sola ragione». Pretende semmai il semplice ascolto. E allora ascoltiamoli questi ragazzi del «credere, obbedire e combattere» travolti dalla storia.
C'è chi come Edoardo Sala (comandante del reggimento paracadutisti Folgore, classe 1913) difronte al crollo dell'8 settembre 1943 non ebbe un solo dubbio. «Si vedevano dei soldati che si toglievano le uniformi, uscivano dalle caserme con un fagotto e se ne andavano; ufficiali che si toglievano i gradi; gente che cercava abiti civili. Queste scene mi convinsero che bisognava, in un certo senso, per lo meno salvare l'onore dell'Italia. Ecco ho detto onore per la prima volta». E onore torna ripetutamente in moltissime testimonianze. Per altri quello che stava succedendo risultò incomprensibile, piombò sui rapporti personali. E come capì, in ritardo, qualche intellettuale, decenni dopo, il personale è politico. Così nel ricordo di Giulio Togni (divisione San Marco, classe 1910): «Perché sono passato alla Repubblica sociale italiana? Non mi sentivo di tradire - come ci hanno tradito i nostri grandi capi - i tedeschi, che erano lì e che a un bel momento si sono trovati l'alleato contro! E io avrei dovuto sparare al capitano e mio amico Kammerer perché era diventato in quel momento un nemico?».
Ecco, in un'Italia spezzata in due, per molti la parte perdente è l'unica possibile per motivi morali. Per altri nemmeno è una scelta, ma questo non gli risparmierà la tragedia. I tedeschi li trascinano in Germania e gli rendono ben chiaro per chi devono combattere: «Fui anche invitato ad assistere alla fucilazione di cinque nostri ragazzi che avevano tentato di evadere per la seconda volta... Mi ricordo ancora uno che implorava: Sono giovane! Non posso, non voglio morire!... E questo fu anche un ammonimento per quelle che avrebbero potuto essere le nostre scelte future». Persino chi restò fedele alla causa dovette subire le umiliazioni dei tedeschi. Anche durante la visita di Mussolini ai reparti in addestramento. Eccole nelle parole di Alceste Brogioni: «Un'ora prima ci avevano perquisito dalla testa ai piedi. Ma nessuno aveva un proiettilino, neanche tipo accendino. Eravamo tutti armati, ma con le armi scariche... Mentre i tedeschi vicino a noi erano tutti armati di Maschinepistole». Abbastanza per gettare lo scoramento anche tra chi era rimasto fedele, parola di Giancarlo Leonardi: «Il discorso (del Duce ndr) cadde nel più profondo silenzio. Per contrastarlo i fedelissimi urlarono: Duce! Duce!. Tacquero e riprovarono. L'armata Liguria restò immobile e muta. Allora il Duce risalì pesantemente i quattro gradini del palco e disse Vogliate almeno ripetere all'appello Italia! Italia!. Italia! rispondemmo».
Anche peggio al rientro, dove molti che volevano combattere gli angloamericani si videro relegare in una guerra fratricida, sanguinosa e strisciante. Molti come Donatello Mancini (Divisione San Marco) sognavano «di partecipare con una grande unità a quella che noi ritenevamo essenziale, cioè la guerra agli angloamericani, che stavano risalendo la penisola. Ma altrettanto grande è stata la delusione nel vederci inchiodati in una zona travagliata dai mille episodi della guerra civile e che non ci permetteva di realizzare quello che era il nostro sogno». Il sogno era diventato un incubo, almeno secondo Giulio Setth - «Non c'è stata un'escalation dell'odio: appena arrivati ci hanno subito odiati. Subito. Sempre. Tu stavi lì, e loro ti odiavano. Non c'è stato niente da fare» - o Osvaldo Magnaghi: «Era una popolazione non tutta attaccata al movimento partigiano, ma era una popolazione stanca, delusa, che vedeva in noi le persone che protraevano la guerra».
Solo pochi, come l'orientalista Pio Filippani Ronconi, riuscirono davvero a battersi contro gli americani ad Anzio: «Eravamo seicentocinquantatré volontari, compresi i ragazzini che da tutte le parti si intrufolarono per venire a fare la guerra assieme a noi. Ritornammo in centoquarantasei». Poi le storie di tutti furono travolte dalla sconfitta. Spesso la resa coincise col linciaggio. Sempre con l'oblio di cui ricorda Luigi Farina: «Quando è finita la guerra e siamo tornati a casa pensavamo di riprendere la vita normale. Mi sono accorto invece che nella considerazione generale noi eravamo dei lebbrosi.
Non potevamo avere contatti, eravamo sempre accusati di cose che noi non avevamo nemmeno pensato...».Ora forse è tempo di ascoltare le voci di chi scelse (o si trovò) dalla parte sbagliata perché anche questi uomini, e donne, sono la nostra storia. E questo non glielo si può togliere.
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