Scrivere di guerra e pace nel cuore dei Paesi Baschi

In «Patria» Fernando Aramburu racconta il dramma di due famiglie travolte dal terrorismo

Scrivere di guerra e pace  nel cuore dei Paesi Baschi

Una feroce guerra civile, iniziata nel 1968, con centinaia di morti e feriti. Questa è stata la tragica storia vissuta dai territori baschi. Una regione straziata da Eta, e dal suo nazionalismo estremista, ma anche da una repressione da parte dello Stato spagnolo condotta, a volte, in maniera sbagliata, basti pensare al caso dei Gal (i Grupos Antiterroristas de Liberación che operarono, a lungo, in una zona grigia e di tolleranza istituzionale). Questa mattanza - Eta (Euskadi Ta Askatasuna, Paese basco e libertà) ha ucciso direttamente 822 persone - si è conclusa nel 2011 quando la dirigenza di Eta ha dichiarato la sospensione della lotta armata. Ma, da allora, nessuno era riuscito a dare una veste letteraria a tutte le contraddizioni e a tutte le ferite rimaste aperte dopo quegli anni di violenza. Basti dire che spesso in Euskadi sono stati i parenti delle vittime degli assassinati a lasciare le città dove vivevano, mentre i terroristi scarcerati venivano accolti come degli eroi, tra gli applausi e sotto gli striscioni appesi fuori dalle herriko taberna (i ritrovi dei nazionalisti) o talvolta addirittura ai balconi degli uffici comunali.

Però, ora, c'è un romanzo che è riuscito a dare conto in pieno del dramma delle vittime e anche del dramma di chi ha buttato via la sua vita inseguendo un sogno di comunismo nazionalista che non aveva alcuna speranza di vittoria. È lo scrittore di origine basca Fernando Aramburu, di cui arriva in Italia per i tipi di Guanda il coraggiosissimo romanzo Patria (pagg. 626, euro 19).

Aramburu (che sarà al Festivaletteratura di Mantova sabato 9) riesce con un racconto corale, con al centro due famiglie, a rendere il peso doloroso di un'epoca. Gli effetti devastanti dell'odio che spacca in due la comunità di un villaggio della provincia di Guipúzcoa, vicino a San Sebastián, e porta verso una tragedia insanabile.

C'è Txato, un basco, che di mestiere ha una azienda di trasporti e c'è il suo fraterno amico, sempre basco, Joxian, meno fortunato economicamente che lavora in fonderia (e che Txato aiuta in tutti i modi). E ci sono le loro famiglie che passano un sacco di tempo assieme. Poi, però, arriva la politica, o meglio, il braccio armato della politica. Txato inizia a ricevere lettere dell'Eta: gli chiedono un pizzo spropositato, facendolo passare come finanziamento per la lotta. Lui paga quel che può... Ma al Paese c'è anche chi semplicemente odia o invidia chi è più ricco. E alla fine iniziano a comparire le scritte: «Txato traditore», «Txato fascista», «Txato quando ti sparano?». E attorno al poveretto si crea il vuoto. Persino Joxian e i suoi iniziano a non frequentarlo più, anche perché il figlio più grande di Joxian, il rabbioso Joxe Mari, è con Eta, è in clandestinità.

Poi arriva il fattaccio, in un pomeriggio di pioggia sparano a Txato.

La moglie e i figli, circondati da un muro di silenzio lasceranno il paese, incapaci di dimenticare. Ma anche chi resta porta un peso tremendo. Il peso di chi sa di non aver speso una parola in difesa di persone che sa innocenti. E c'è chi, in casa di Joxian, porta un fardello anche più grosso. E se a sparare fosse stato proprio Joxe Mari, che nel frattempo è stato catturato e messo in prigione? La madre di Joxe Mari se ne frega dei suoi vecchi amici, sa solo che in galera massacrano suo figlio. La sorella Aranxa invece prova così tanta pena per i figli e la moglie di Txato, moglie che passa molto del suo tempo a parlare su una tomba e a porsi domande senza risposta.

Questi e molti altri sono i fili (di sangue) con cui Aramburu tesse la sua storia. Le vite si incrociano, a volte normali, a volte meschine, a volte noiose e poi di colpo il macigno della guerra civile non dichiarata torna di nuovo ad aggrovigliarle. Non si riesce comunque ad andare oltre.

Eppure si deve, soprattutto quando la lotta armata si spegne, come un incendio che ormai ha già bruciato tutto. E forse il primo a farlo davvero è proprio il terrorista Joxe Mari, quando in carcere dopo anni la verità gli appare all'improvviso spingendolo verso il primo gesto umano dopo tanto tempo: chiedere perdono. Perché? Perché «a poco a poco avevano smesso di risuonare slogan, argomenti, tutti quei rottami verbali/sentimentali con i quali per lunghi anni aveva oscurato la propria verità intima. E qual era questa verità? Che aveva fatto del male e aveva ucciso. Per cosa? E la risposta lo riempiva di amarezza: per niente. Dopo tanto sangue né socialismo, né indipendenza, né un cazzo fritto».

Si scopre vittima di una truffa ideologica, solo un'altra vittima, ma una vittima che si è fatta carnefice. E decide che pagare in fondo è la cosa migliore che gli resti da fare.

Ma il merito del libro di Aramburu non è solo nell'aver rinchiuso nella trama il dramma di entrambe le parti, pur distinguendo con chiarezza i colpevoli dagli innocenti. È quello di essere riuscito a ricostruire alla perfezione la banalità del male e la sua genesi. Oltre che il clima di un'epoca e di una regione, dove l'utilizzare una parola in euskera o in castigliano bastava a creare una frontiera di odio.

Difficilmente si legge questo libro, definito da Mario Vargas Llosa «persuasivo, commovente», a ciglio asciutto. Sarebbe bello se qualcuno riuscisse a fare un romanzo altrettanto bello e rivelatore sulla stagione del terrorismo italiano.

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