Cultura e Spettacoli

Se vuoi essere un vero filosofo fai il contrario di ciò che scrivi

Da Rousseau alla de Beauvoir, i pensatori usavano «Il genio della menzogna». Per difendersi da se stessi

Se vuoi essere un vero filosofo fai il contrario di ciò che scrivi

Quando eravamo bambini piccoli e analfabeti, gli adulti ci raccomandavano, facendo la faccia scura: «non si dicono le bugie». Ma quando siamo cresciuti un po' diventando cittadini alfabetizzati, nessuno dei grandi ci ha mai raccomandato: «non si scrivono le bugie». Se ce l'avessero detto, i più svegli fra noi avrebbero avuto buon gioco ribattendo: «e allora Cappuccetto Rosso, e Biancaneve, e Sandokan?». Alcuni audaci e bene informati, togliendo il velo di Maya e smascherando un falso mito del lessico famigliare, si sarebbero forse spinti a chiedere, ridacchiando: «quindi come la mettiamo con Babbo Natale?». Perché Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Sandokan e Babbo Natale erano fra i nostri (e fra i loro, degli adulti) testi di riferimento, costituivano un canone allestito a nostro uso e consumo, qualcuno li aveva scritti e poi si erano volatilizzati nell'aria che respiravamo. Crescendo ulteriormente, e diventando uomini e donne, le cose non sono cambiate: le bugie non si devono dire, ma si possono trasformare in testi, intendendo per testi non soltanto i libri (ovvio) e i giornali (più che ovvio), ma anche i discorsi pubblici (ultra ovvio).

Quindi, come stupirci di fronte alle palesi e dichiarate bugie della letteratura? Di più, come stupirci di fronte alle mascherate menzogne di quella particolare categoria di scrittori che sono i filosofi? Fra l'altro, tecnicamente il filosofo è «colui che ama la sapienza», quindi è doppiamente indotto a mentire: primo perché la sapienza è sempre frammentaria, parziale, temporanea, e secondo perché essere in amore è la condizione umana più bugiarda, in quanto assolutizza il relativo.

Il saggio di François Noudelmann dal titolo Il genio della menzogna, e dal sottotitolo-domanda retorica I filosofi sono dei gran bugiardi? (Raffaello Cortina Editore, pagg. 250, euro 21, traduzione di Alice Venditti, da oggi nelle librerie) serve proprio a ricordarci che i filosofi non sono né matematici, né chimici e che quando partono (per la tangente) con destinazione la «sapienza», s'inventano tutte le scorciatoie possibili e immaginabili, compresa quella di dire (di scrivere) «sì» intendendo «no», oppure «bene» intendendo «male». Perché un conto è la «sapienza», e un altro conto, molto più salato, è la «verità».

Prendiamo Jean-Jacques Rousseau. Mise al mondo cinque figli, e li parcheggiò tutti fra i trovatelli. Il che non gli impedì di sfornare un capolavoro della pedagogia: Émile ou De l'éducation. Secondo Noudelmann, mostrarsi sulla carta un padre amoroso era una specie di legge del contrappasso.

Invece Michel Foucault di figli non ne ebbe, perché le donne non gli interessavano. Contrasse l'Aids. Negli ultimi mesi di vita sapeva di avere il destino segnato, anche se non lo dava a vedere, anzi dissimulava la sua condizione di malato terminale. E come titolò l'ultimo seminario tenuto all'Università di Berkeley e al Collège de France? Il coraggio della verità. Suona struggente, quella parola «coraggio» e, accanto a «verità», assume anche una valenza anti-socratica. Nel Fedone il greco mette in scena la sua morte, qui il francese la occulta. Dallo studio della biopolitica dedita al controllo degli altri, Foucault era passato alla cura del sé. Chiosa giustamente Noudelmann: «conservare dei segreti non è mentire».

Un bugiardo per indole, più che per scelta, fu Jean-Paul Sartre. Il mondo lo conosce come paladino dell'impegno nel sostenere le giuste cause a tutte le latitudini del pianeta. Ma, scrive Noudelmann, «la teoria dell'impegno è stata costruita su una mancanza di impegno». Infatti, prima di trasformarsi in un globe-trotter paladino dei deboli, Sartre fu una vittima della sua pigrizia e del suo disinteresse. La vita gli dava La nausea, e lui preferiva starsene per i fatti suoi, al tavolino di un bar.

Un altro tipo piuttosto appartato, a dispetto della sua immagine pubblica frutto di malintesi, fu Gilles Deleuze. Fra i suoi concetti-feticcio, insieme a «piega», «rizoma», «deterritorializzazione», «piano di consistenza», «spazi striati», «corpo senza organo» e via strutturando e destrutturando, c'è «nomade». Nel senso stretto di qualcuno che sta sempre su piazza a far girare le idee, più ancora di Sartre nella sua seconda vita. Ma il vero Deleuze era un sedentario incallito, se ne stava in campagna nel ridente Limosino. Una volta sola andò negli Stati Uniti e là ne approfittarono per usarlo come ambasciatore della «French Theory». Poi ovviamente concionava sul «nomade» che sta fermo mentre il mondo gli gira intorno e invece a girare come una trottola è il «migrante»...

A proposito di parole feticcio, ce n'è una ancora pienamente in voga: «altro». A farne il proprio simbolo araldico fu Emmanuel Lévinas. Di origini ebraiche, e quarantenne durante gli orrori nazisti, riuscì a scrivere: «Passare, nel trauma della persecuzione, dall'oltraggio subìto alla responsabilità per il persecutore». Qui siamo ben oltre la bugia, sfioriamo la presunta e assurda colpa dell'essere vittime...

Citare di passaggio il Søren Kierkegaard seduttore sedotto e fan del matrimonio che mai venne sfiorato dall'idea di sposarsi, ci permette di passare a Il secondo sesso. Nel senso del libro di Simone de Beauvoir. Mentre lo scriveva, scodinzolava intorno allo scrittore statunitense Nelson Algren come una volpina in calore intorno a un alano. Nelle lettere è tutto nero su bianco. Però, ultimata la missiva sognante di giornata, trovava tempo e modo per paragonare la massaia al «manicheo»: per questo tutto è o bene o male, per quella la casa è o pulita o sporca.

Un modo senza dubbio originale per esprimere solidarietà alle donne.

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