Camillo Langone
«T rovandomi a vivere di una piccola rendita, solo, a cinquant'anni, non mi restavano che le preoccupazioni della salute e dell'amore». L'ultimo romanzo di Paolo Bianchi è un libro da leggere perché parla di noi o se non proprio di noi di parecchi nostri amici o parenti o colleghi, insomma di tanti maschi bianchi italiani di indole conservatrice alle prese, oggi, con una popolazione femminile non più molto femminile, né sempre bianca, né sempre italiana, e sempre più dannatamente conformista. Se si supera lo scoglio del titolo, infelice e per giunta svirgolato, Donne smarrite uomini ribelli (Cairo), si rischia davvero di immedesimarsi nel depresso protagonista, uno che a Capodanno brinda a Xanax, costretto dal suo sconsiderato bisogno d'affetto a frequentare donne che sarebbe stato meglio non conoscere mai. Libraie disoccupate, gelataie abbandonate, coreane strampalate, pittrici fallite, cassiere coi capelli verdi, non tutte di sinistra ma tutte poco affettuose. Tutte più o meno disperate e disperanti, come Gabriella che «era raggrinzita dalle delusioni, dal risentimento verso quegli uomini che secondo lei l'avevano usata», o la psicanalizzata «mai stata sicura di qualcosa. Se vai in analisi per dieci anni anche le tue poche sicurezze vengono annichilite».
La peggiore ovviamente è la libraia. Ovviamente per chi come me e come l'autore conosce bene l'ambiente ossia «un mondo letterario che era ormai solo un sottobosco sociale e non contava nulla e non produceva reddito alcuno». Costei lo trascina a presentazioni di libri illeggibili, in fetidi circoli Arci o nella «Libreria delle Vittime Innocenti, un luogo di ritrovo per anime in grado di professare solidarietà a distanza verso tutti i Vinti e i Disgraziati e i Deboli del mondo». Tutti posti che richiedono al nostro conservatore di mezza età lo sforzo di mimetizzarsi: «Mi sarebbe toccato nascondere certe mie idee fuori moda». Ma per quanto si impegni non gli riesce, lei è piena di sgradevoli amici omosessuali e quando lui ne definisce uno «culattone» viene a sua volta definito «fascista di merda». Io me ne sarei andato con la medaglia appuntata al petto, ribelle davvero a tanta insipienza, non il protagonista che sebbene di cognome si chiami Rivolta alla fine accetta tutto, anche di accompagnarla ad ascoltare Yves Klein (l'unica nota lunga venti minuti della Symphonie monoton) e a vedere un film turco girato in Cappadocia («Aveva anche vinto la Palma d'oro a Cannes, quindi doveva trattarsi di una colata di cemento»). Dopo Woody Allen qui ci avviciniamo perfino a Paolo Villaggio, mentre quando per fortuna lei lo lascia entriamo nel territorio di Houellebecq, con una triste vacanza alle Canarie: «Ogni viaggio era organizzato, ogni viaggiatore un turista e ogni turismo turismo sessuale, pensavo».
Paolo Bianchi è bravo a dirci cose importanti sul nostro tempo senza mai smettere di raccontare le agrodolci avventure del goffo seduttore, e una delle cose più importanti eccola: «La mia era una generazione che viveva sull'eredità di un mondo in via di sparizione, su patrimoni grandi e piccoli accumulati nei decenni prima dai nonni e dai genitori, sul lavoro fatto nel dopoguerra, durante una crescita che ormai non c'era più da anni, si era fermata del tutto un decennio prima. Chi non ereditava niente rotolava lungo la china della povertà, gli altri prendevano tempo, in molti arrancavano». Stavolta l'amico lettore potrebbe percepire un'assonanza con Edoardo Nesi. Viaggi a parte la vicenda si svolge nella Città Grande che è facile identificare con Milano quando parla dei «ricchi viziati dei brutti grattacieli nuovi spacciati per superfighi, arroganti imitazioni dei giardini pensili di Babilonia».
E così abbiamo sistemato anche il Bosco Verticale di Stefano Boeri, architetto osannato da ogni donna smarrita che si rispetti. E il multiculturalismo tanto caro alla tipologia femminile di cui sopra? Eccone un bel risultato: «Lei voleva fare l'albero, io il presepio, così non facemmo nulla».
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