"In Sirley racconto la forza dell'amore che travolge la vita di due ragazzine"

La sceneggiatrice ci racconta perché scrive "romanzi che sono già film"

"In Sirley racconto la forza dell'amore che travolge la vita di due ragazzine"

Quand'è che una ragazzina diventa una donna? E quando i suoi segreti diventano pericoli anticonvenzionali per un mondo di adulti spaventati? È un percorso, che passa attraverso la tanto citata diversità, l'accettazione de sé, la lotta tra compromesso e radicalità. È l'indagine narrativa del nuovo romanzo Sirley (in uscita oggi per Fandango, pagg. 176, euro 15), a firma della sceneggiatrice e regista Elisa Amoruso, che ha al suo attivo, tra l'altro, due documentari che hanno fatto discutere, Bellissime e Chiara Ferragni: Unposted; la sceneggiatura, per Netflix, del romanzo italiano più discusso del 2019, Fedeltà di Marco Missiroli e la regia di Maledetta primavera, il film tratto proprio da Sirley, che uscirà il prossimo autunno.

In breve, qual è la storia di questo romanzo?

«Il racconto è di forte matrice autobiografica: nasce come un romanzo di formazione, ma ho sempre saputo come sarebbe andato a finire. Al centro c'è una ragazzina undicenne, Nina, il rapporto con sua madre e il primo rapporto di amicizia simbiotica che ha, con Sirley, una tredicenne sudamericana appena arrivata nel quartiere di periferia di Roma dove vive. Un rapporto in cui lei si perde, perché si identifica a tal punto in questa amica che perde i confini della sua identità. A completare il quadro, una famiglia leggermente disfunzionale, con genitori simpatici, ma spesso in crisi».

Il finale è coraggioso...

«Quando le due solitudini di Nina e Sirley si incontrano, l'amicizia diventa la scoperta di un desiderio al femminile. Questo è ancora un tabù: si parla poco del desiderio dal punto di vista femminile, del sesso visto dalle donne e dei risvolti di comprensione, simbiosi e talvolta ambiguità che questi desideri possono avere».

Che cosa dice questo romanzo di diverso rispetto all'abbondanza di prodotti culturali sugli adolescenti?

«Volevo parlare di un rapporto tra due ragazze, che non prevedesse il confronto con l'uomo e col maschile, ma tra loro e con la madre come leve principali».

A tratti viene in mente Chiamami col tuo nome: fondamentale è vedere dove porta il desiderio?

«Ho visto commuoversi uomini eterosessuali di cinquant'anni su una scena d'amore tra due ragazzine che si separavano: sono corde universali. Tuttavia, il libro è ambientato nel 1989: le ragazze sono vittime di quello che pensa la gente e i loro stessi genitori, i primi a portarle via da quella relazione. Le donne si sentono sempre giudicate per tutto quello che fanno e sicuramente sulle donne ci sono pregiudizi. Il che, soprattutto fuori dal mondo occidentale, le mantiene molto poco autonome».

Il romanzo è un film.

«Già finito. Abbiamo già una distribuzione. Il titolo, Maledetta primavera è dovuto al fatto che la canzone, presente nel film, è tematica rispetto alla storia d'amore».

Il libro esce ora è il film è già pronto: che cosa è nato prima?

«Il romanzo è stato scritto per poter girare il film. La mia idea per il soggetto non mi bastava a sviluppare la sceneggiatura, mi serviva un romanzo».

Le arti non bastano più a se stesse?

«Da un po' di tempo sempre più spesso noi autori registi ci rivolgiamo alla letteratura per avere spunti o storie per lo schermo».

E la sinergia funziona meglio che in passato?

«La letteratura stessa è diventata molto visiva: lo scrittore contemporaneo viene inevitabilmente influenzato e scrive per immagini, inconsciamente, più di quanto non lo facesse uno scrittore dell'Ottocento o del Novecento. Per noi, che cerchiamo immagini ma anche personaggi, nei romanzi si trova un approfondimento che difficilmente si può avere all'interno di una sceneggiatura originale.

È quello che è accaduto con Missiroli?

«L'adattamento di Fedeltà, che due anni fa era in cinquina allo Strega, è uno di questi esempi: abbiamo dovuto inventare movimenti drammaturgici rispetto al romanzo, ma abbiamo conservato quella complessità che rende personaggi tridimensionali.

Tornando allo studio sul desiderio, qui c'è uno dei fuochi della sua ricerca sulle donne, che parte da lontano.

«Quello che ho cercato di costruire con molti miei lavori è un ritratto della condizione femminile nella contemporaneità. Fuoristrada, il mio esordio alla regia, raccontava la storia di un meccanico pilota di rally che decide di diventare trans: anche quello era un racconto al femminile, perché alla fine lui parlava come una donna. Con Bellissime, fatto per Tim Vision e Fandango, ho raccontato il modello di bellezza e lo stereotipo che implica nel giudizio sintetizzato narrativamente di una famiglia in cui tre figlie sono state baby-modelle fin dall'età di 5 anni».

E poi il documentario che le ha dato notorietà, quello su Chiara Ferragni...

«Quella di Chiara è una storia agli antipodi, rispetto ad esempio alle ragazze di Bellissime. Venendo dal niente, dalla provincia di Cremona, da sola ha costruito la sua immagine globale e il suo ruolo di imprenditrice digitale».

Mentre la vulgata narra che sia stato il suo ex a creare le basi per l'impero Ferragni.

«Un grandissimo equivoco, costruito sul pregiudizio.

Ferragni è una delle donne più importanti al mondo secondo Forbes: era un peccato sottovalutarla, un peccato che non sia considerata in Italia una eccellenza italiana. Se una donna ha successo si pensa sempre che ci sia dietro un uomo: qui invece c'è ingegno, talento nel comunicare e coraggio nelll'imporre le proprie idee».

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