Sudamerica, Isola di Pasqua, Tahiti, Africa occidentale, Turchia, Vietnam, Taiwan, Paesi Baschi, India, Persia, Cina, Egitto, Italia... Nessun dubbio: nella storia degli «immortali» accademici di Francia, per non dire nella storia della letteratura in assoluto, Pierre Loti (1850-1923) è di gran lunga il più chilometrato. Ma non nel senso corrente di «usurato», al contrario: monsieur le Capitaine più viaggiava e più desiderava viaggiare, come una dinamo umana, forse accarezzava il sogno del moto perpetuo. Inoltre, spostandosi per mare (quasi sempre sulle onde delle guerre e del conseguente, imbarazzante caravanserraglio diplomatico, fra cene di gala offerte dalle legazioni, feluche consunte, damazze ingioiellate e intrallazzatori da esportazione), si risparmiava la seccatura del cambio dei compagni di viaggio. I suoi compagni erano infatti i suoi fedelissimi uomini, e sul «suoi» le lingue al peperoncino, di Cayenna e non, hanno ricamato a lungo. Comunque, una volta messo piede a terra, monsieur le Capitaine entrava immediatamente in modalità scrittore. E, dopo un rapido riscaldamento per penna e taccuino, trovava il modo di sentirsi ovunque come a casa, anzi meglio che a casa.
C'è però un'eccezione. E fa rima con Giappone. Il suo occhio da etnologo, abituato a lavorare di concerto con la sensibilità da esteta, per quanto si sforzi, proprio non riesce a penetrare fino ai recessi della cultura e del carattere di quel popolo. Lo dimostrano i saggi risalenti al periodo 1885-1901, fino a ora inediti in italiano, raccolti in Giapponeserie d'autunno (O barra O, pagg. 185, euro 14, traduzione di Maurizio Gatti). Ecco Loti far visita a «La Montagna Santa di Nikko», sorta di comprensorio spirituale dedicato alla memoria dello shogun Tokugawa Ieyasu, morto nel 1616. «Si rimane colpiti - scrive - nel gustare quest'arte così lontana da noi, dalle origini molto diverse; nulla che derivi - nemmeno alla lontana - dalle nostre antichità, greca, latina o araba alle quali attingono ogni giorno, senza che ce ne rendiamo conto, le nostre nozioni originarie sulle forme ornamentali. Qui il più piccolo disegno, la più piccola linea, tutto ci è profondamente estraneo, come potrebbero esserlo cose provenienti da qualche pianeta vicino, mai entrato in contatto con la nostra Terra».
Il Giappone è addirittura percepito come la manifestazione di intelligenze extraterrestri. Loti ne subisce l'intensità straniante non appena in lui si attenua l'ammirazione per un'arte che oscilla fra la dimensione eterea, cristallina e luminosa, e quella ctonia, tenebrosa e ancestrale. E avvertiamo il rammarico che cresce di fronte a un mondo che si sta estinguendo a causa della sua «infatuazione per la modernità, che l'ha colpito come una vertigine», a un Paese «che oggi sprofonda nella grande corrente occidentale, ma che ha avuto un passato meraviglioso». Ecco, il passato... Il Giappone custodisce il proprio passato nei suoi atri muscosi, nei suoi Fori cadenti, potremmo chiosare noi italiani, e lo fa con una devozione e una convinzione ignote all'Occidente, il quale spesso se ne prende gioco, impegnato com'è, al giro di boa del XX secolo, nella corsa al progresso. «Intorno all'anno mille della nostra era, mentre noi eravamo ai santi naïf delle chiese romane, il Giappone aveva già artisti capaci di creare questi orrori raffinati e ricercati», sottolinea Loti.
Fuori dai sacri recinti spirituali o museali, nella vita di tutti i giorni, nelle occasioni mondane, come quando viene invitato dal ministro degli Affari esteri e dalla contessa Sodesuka al Rokumeikan per una serata danzante, oppure è fra i pochissimi privilegiati che assistono (e sarà l'ultima volta nella storia) all'apparizione pubblica dell'imperatrice per il settembrino «Giorno dei crisantemi», oppure su un treno affollato, o a spasso per Yoshiwara, il quartiere del sesso di quella Edo non ancora ribattezzata Tokyo, Loti diventa un turista di più basse pretese, scoprendo presto che nemmeno queste verranno soddisfatte. I deboli di cuore politicamente corretto non apprezzeranno le sue annotazioni tranchant, anche se prive dell'arroganza del conquistatore: «tutto odora di razza gialla, di muffa, di morte»; «Dove finisce il dio, dove comincia il giocattolo? Loro, i giapponesi, lo sanno?»; «I miei compagni di tram sono stanchi, smorti, abbruttiti; le labbra pendule; miopi in gran parte, con occhiali rotondi sui piccoli occhi simili a forellini obliqui, e puzzano di olio di camelia rancido, di animale selvatico, di razza gialla. Nemmeno una graziosa o divertente musmè che possa riposarmi la vista...».
La musmè, da non confondere con la geisha, quest'ultima formata, dice Loti, in una specie di «conservatorio» che ne forgia l'eleganza dei modi e il livello culturale, è anch'essa un'istituzione giapponese, soprattutto in quel periodo che vede il Paese... porgere la mano, seguendo i dettami dell'epoca Meiji, agli occidentali. Una mano non soltanto da stringere in formali saluti, ma anche da accarezzare dopo averla chiesta, proprio come accadeva in Francia o in Italia, al genitore di riferimento, in questo caso la madre. Insomma, le musmè erano mogli-escort a medio termine che gli europei affittavano pagando moneta sonante fino al momento di ripartire per altri lidi. Poteva, l'etnologo-memorialista Loti, perdere quest'occasione? Certo che no, come leggiamo in Kiku-san. La moglie giapponese, uscito l'anno scorso (sempre per O barra O, e sempre nella traduzione di Maurizio Gatti). Kiku significa Crisantemo, e viene da sorridere quando il Nostro afferma che lei, la sua giovanissima sposa di fine estate del 1885, diversamente dalla sue colleghe era un tipo triste. Viene da sorridere perché in Giappone il crisantemo è simbolo di felicità, non di mestizia, come nei nostri cimiteri... Qui la testimonianza assume i contorni del romanzo, che inizia quando la corvetta «Triomphante» di Loti entra nel porto di Nagasaki e finisce quando ne esce, diretta in Cina. La strana coppia va ad abitare sulla collina del quartiere residenziale, e la seguiamo nello shopping e nelle visite ai parenti acquisiti, nell'usanza della pipata serale e durante i pasti che lasciano Loti esterrefatto per le portate «da bambolina». Sesso? Zero.
Accompagna quotidianamente monsieur le Capitaine uno dei suoi uomini, Pierre le Cor, da lui ribattezzato Yves (è lo stesso Yves del romanzo Mon Frère Yves, datato 1883).
Lo accompagna con tale assiduità che a un certo punto il tenero Pierre comincia ad avvertire le punture della gelosia. Un sentimento molto occidentale. Infatti le solite lingue al peperoncino, di Cayenna e non, dicono che lo scrittore temeva di perdere non la fugace musmè, bensì l'amicizia, molto virile, del rude marinaio bretone.
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