Aveva 52 anni e ci vollero due giorni. Era luglio a New York City. Era il 1966. Ci vollero due giorni e l'odore che andava a passeggio nei corridoi perché qualcuno si accorgesse che era morto. Nel 1966, che ironia, la Chiesa cattolica abolisce l'Indice dei libri proibiti, eppure alcune sue poesie sono dette ancora oggi «impubblicabili». Nel 1966, che ironia, due ebrei di diseguale valore artistico, Nelly Sachs e Shmuel Yosef Agnon, vincono il Premio Nobel per la letteratura, mentre lui, Delmore Schwartz, figlio di ebrei rumeni, «la prima, vera, palpabile innovazione nel mondo della lirica dai tempi di Eliot e Pound» (questo è Allen Tate, tra i più autorevoli scrittori e intellettuali statunitensi, ovviamente quasi per nulla tradotto e per nulla capito in Italia), muore come un cane, in glaciale isolamento, segregato da mesi nel Columbia Hotel di New York. Beveva, Delmore. Beveva di brutto. Era predato dalle allucinazioni. Pensava che il mondo dei letterati fighetti di New York cospirasse contro di lui. Nessuno lo capiva. Eppure, Lou Reed diceva a tutti «è l'uomo più grande che abbia mai incontrato» e Allen Ginsberg, il guru della Beat Generation, il Paul Verlaine dei «maledetti» in salsa tomato Usa, voleva farne un santino, un reclutato sul carrozzone, una sorta di avatar di Arthur Rimbaud. In effetti, Delmore Schwartz, che aveva tradotto Una stagione all'inferno nel 1939, nelle fotografie ha lo stesso viso di Rimbaud. Un Rimbaud, però, che non ha bisogno di mollare tutto e di volare nell'Africa oscura; a Delmore bastano le proprie oscurità da esplorare, da espiare. Finché nel luglio del 1966 il poeta Delmore Schwartz non muore come un residuo dell'umanità, nel gorgo ignobile della Storia. E viene trovato morto due giorni dopo. Due giorni di silenzio. Senza commozione né pianto. Due giorni in cui sul petto di Delmore dormono l'Angelo del Rancore e quello della Pietà.
Quando gli dèi ti baciano precocemente, il marchio di gloria fa presto a diventare segno d'infamia. Delmore nasce alla letteratura nel 1937, a 24 anni, quando pubblica Nei sogni cominciano le responsabilità, sulla leggendaria Partisan Review. Un racconto. Troppo bello per essere vero. Nello stesso anno, già che c'è, si sposa con una collaboratrice della Partisan Review, Gertrude Buckman. L'anno dopo pubblica il primo libro. Racconti. Che strappano sferzanti applausi. Sei anni dopo è già il collasso. Divorzio con Gertrude, la pubblicazione di Genesis, «che avrebbe dovuto essere il più vasto poema americano mai scritto, la risposta schiacciante ai poemi di T. S. Eliot» (Ange Mlinko), ma che stagna. Nessuno lo capisce. Nessuno sa inquadrare Delmore. Per qualcuno è un Rimbaud redivivo, per altri è «l'Auden americano» (così James Laughlin), per altri ancora è «il nuovo Hart Crane» (Dwight MacDonald), poeta, sia detto per inciso, tanto importante che in Italia non è più stampato dal 1984, tradotto, sia lode a lui, da Roberto Sanesi. Tra una poesia a Marilyn Monroe («Cerchiamo di conoscere le autentiche divinità oscure...»), una ad Albert Einstein («Avrei dovuto fare l'idraulico/ e rammendare vasche da bagno bianche per il grande Diogene») e l'altra a Socrate («Il fantasma di Socrate mi perseguita/ mi viene incontro con un inchino goffo/ dicendomi con la sua voce disfatta/ Questo non lo so, non lo so»), un Sonetto suggerito da Omero, Chaucer, Shakespeare, Edgar Allan Poe etc. e la lancinante sintesi su cosa sia mai il poeta («il suo potere è nella mano sinistra/ inutile debole e preziosa/ la sua povertà è la sua ricchezza, una ricchezza che può disintegrarlo»), Delmore si risposa, nel 1948, con Elizabeth Pollet, divorzia per la seconda volta, ottiene il Bollingen Prize, si ritira dal mondo in una estetica preparazione alla morte. «Passava i giorni alla New York Public Library compilando quaderni fitti di racconti incomprensibili» racconta il suo biografo, James Atlas. «Scrittore d'avanguardia il primo della sua generazione era bello, era biondo, corpulento, serio, insieme spiritoso, ed era colto. Insomma, aveva tutto», così, ne Il dono di Humboldt, dietro la maschera di Von Humboldt Fleischer, genio precoce, troppo precoce, troppo intelligente, Saul Bellow, con un certo cinismo abbozza il ritratto di Delmore Schwartz. Bellow dà voce e ugola d'oro all'Angelo del Rancore di Delmore: pubblica il romanzo nel 1975 e l'anno dopo, dieci anni dopo la morte anonima del poeta più furibondo e misconosciuto d'America, ottiene il Premio Nobel per la letteratura, poi non dite che il Padreterno non ha il senso dell'ironia.
Quello di Bellow non è che uno di una serie infinita di riconoscimenti a Schwartz. Tutti postumi. In vita faceva paura. L'ultimo omaggio in ordine di tempo, dopo i peana di John Berryman e di Robert Lowell e gli applausi di John Ashbery, un trio di poeti «laureati», il testo teatrale di Donald Margulies, Collected Stories, scritto nel 1996, atterrato in Italia come Qualcosa rimane, nei teatri da un paio di stagioni, grazie a Monica Guerritore, che mette in scena la storia di una scrittrice amata, amante, devota a Schwartz, il suo Angelo della Pietà, che ne ricopiava liturgicamente i versi e gli nettava il vomito. Più che un gesto di pietà è un atto di giustizia, piuttosto, l'edizione, per la leggendaria New Directions, del The Best of Delmore Schwartz, a cura di Craig Morgan Teicher (pagg. 280, dollari 17,95), il tentativo di dare un ordine coerente alla sua opera poetica. Se fanno fatica negli Stati Uniti a pubblicare come si deve Delmore, figuriamoci in Italia, dove c'è poco, pochissimo, soltanto una manciata di racconti (Nei sogni cominciano le responsabilità è ricomparso nel 2013 per Neri Pozza dopo un passaggio, nel 1990, per Serra&Riva; nel 2003 l'editore Giano pubblica Il mondo è un matrimonio), noi ancora ignoriamo che Schwartz è stato soprattutto un poeta. Un poeta potente, prepotente (che si ritrae così: «L'orso gigantesco che cammina con me/ è l'amante della caramella, della rabbia e del sonno»). Un poeta coltissimo: alla Yale University Library è uno spettacolo sfogliare on line la copia annotata del Finnegans Wake di Joyce posseduta da Delmore. «Dicevi che esistevano poche cose serie nella vita che essere devoti a James Joyce. Mi spiegavi i recessi di Finnegans Wake, per me impenetrabile, lo possedevi come fosse un testo sacro», conferma Lou Reed. Quello di Schwartz, comunque, era l'Angelo Spietato.
Nel 1938, ritenendolo il più grande poeta del suo tempo, Schwartz scrive a Pound. Poco più di ventenne, svela al titano lo schema dei Cantos e azzarda: il poema è cosmico, è grande, «ma ancora superficiale» rispetto a Omero, a Shakespeare, alla Divina Commedia. Pound sta al gioco, ma il rapporto d'amorosi intenti estetici s'incespica un anno dopo, quando Delmore legge Culture, la raccolta di saggi poundiani. «Ho trovato numerose osservazioni sulla razza ebraica. Incomprensibili. Una razza non può commettere atti morali. Soltanto un individuo può essere morale o immorale». Esito: «Mi voglio licenziare dall'essere il suo studioso e ammiratore più fedele». Non sarà così, infine le ragioni estetiche vincono su quelle etiche. Nel 1961 Delmore torna a parlare di Pound, «l'unica cosa da dire sui Cantos è che chiunque sia interessato alla letteratura dovrebbe leggerli, più e più volte. Ma l'Angelo della Pietà, quel giorno d'estate del 1966, si rifiutò di benedire la morte di Delmore. Lo adagiarono su una lastra di marmo: un povero derelitto come un altro, così lo descrive, con docile ferocia, Bellow.
C'è qualcosa di misterioso e intoccabile nella vita bruciata di Delmore, l'uomo che morì per due giorni senza che nessuno si accorgesse di lui, il poeta impubblicabile e perduto, che non ammette lettori ma devoti. Solo.
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