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“È stata la mano di Dio”: Sorrentino chiude il cerchio con le sue origini umane e artistiche

Vitalissimo e pieno di affettuosità diffusa nella prima parte, dolente nella seconda e in levare nel finale, il film più autobiografico del regista omaggia Napoli, la vita e il cinema

“È stata la mano di Dio”: Sorrentino chiude il cerchio con le sue origini umane e artistiche

Oggi alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia è stato il gran giorno di Paolo Sorrentino il cui È stata la mano di Dio, in concorso, travolge come solo i grandi film sanno fare. Si ride e si piange, restando avviluppati ad un racconto che coincide in molte parti con la storia personale del regista. Un'opera nata probabilmente per chiudere i conti col passato, con le origini e con i lutti che cambiano la vita.

“È stata la mano di Dio” appare la summa di ciò che ha reso Sorrentino il regista e l’uomo che è oggi: racchiude visioni e racconti che lo hanno condizionato, incontri che lo hanno formato, la nascita dell’amore per la settima arte e la venerazione per il femminile nelle sue accezioni di materno, sensuale e salvifico.

Ambientato negli Anni 80, il film abbraccia Napoli con calore e generosità, immortalandola come solo un figlio può fare, rendendola cioè amabile e bella da tutte le prospettive possibili. Traboccante di dettagli e nei mille colori cantati da Pino Daniele, tra panoramiche mozzafiato, campetti di calcio brulicanti di ragazzini, figure pseudo religiose della superstizione locale e molto altro. La presenza della mano divina si percepisce già nella maestà fronte mare ripresa durante il lungo piano sequenza iniziale, ma anche nel modo incomparabile in cui ognuno, in questo tratto di costa, è se stesso nel modo più atipico possibile.

Allegro e doloroso, forse dalla durata un po’ eccessiva, ma ricco di scene che restano addosso, “È stata la mano di Dio” ti fa innamorare dell’esistenza durante tutta la sua prima parte, grazie allo sfoggio di un universo umano di incomparabile vitalità, per poi trafiggerti come solo certi brutti scherzi del destino sanno fare e, infine, insegnarti a piantare nel buio del lutto nuove gemme.

Il nuovo lavoro di Sorrentino ha nel titolo un duplice riferimento: l’uno al gol di mano che Armando Maradona segnò nei quarti di finale di Messico 86 (in merito al quale il campione appunto dichiarò: “È stata la mano di Dio”), l’altro al ruolo che il calciatore ebbe nel momento spartiacque della vicenda autobiografica del regista. Per seguire una partita del Napoli, infatti, l'adolescente futuro regista era sfuggito alla morte, dovuta al monossido di carbonio, che aveva colto invece i suoi genitori nel sonno.

Indipendentemente dall’essere già a conoscenza o meno di tale disgrazia, la sua rievocazione su celluloide ha una potenza deflagrante, perché a quel punto del girato siamo oramai di casa nella compagine parentale del giovane Fabietto Schisa (un bravissimo Filippo Scotti), alter ego del Sorrentino ventenne. Il taciturno ragazzo è iscritto al liceo classico, ha poche idee sul futuro e nessuna esperienza con le ragazze, ma un grande desiderio: vedere Maradona al Napoli. Per tutto il film il leit motiv è proprio l’eventuale arrivo del fuoriclasse nella squadra partenopea, argomento divisorio tra ottimisti e pessimisti.

Si sorride a lungo di siparietti realistici e irresistibili in cui Servillo (qui padre del protagonista) giganteggia ma senza mai rubare la scena a comprimari che, per una volta, sono davvero alla sua altezza. Caratterizzati con pochi ma significativi tratti, i personaggi conquistano: si va dall’istrionica Baronessa che si fa scudo di una spigolosità fasulla ai vicini di casa “austro-ungarici”, da Mario che cura l’auto maniacalmente giorno e notte alla Signora Gentile, tutta visone, mozzarella e parolacce. Tra ruralità calda, scherzi da professionisti e caciara divertente e divertita, la truppa di consanguinei e vicini di casa è accomunata da una sgangheratezza sorridente.

E poi c’è lei, “l’origine del mondo”, intesa in senso cinematografico e non solo. La bellezza statuaria della zia Patrizia (Luisa Ranieri) che paga pegno al dono di un corpo divino con la dotazione di una mente fragile. Un po’ Malena tornatoriana e un po’ dea dei Serpenti cretese, incute timore perché la sua prorompente fisicità si accompagna a un esibizionismo patologico. Comprensibile che i “diversamente belli” (definizione ipocrita ma sensata nell’epoca ipersensibile in cui viviamo) stiano a debita e reverenziale distanza.

La componente estetica nel cinema di Paolo Sorrentino emerge nelle immagini più inaspettate, siano esse statiche e dalla composizione pittorica come quella di un enorme lampadario di cristalli che giace caduto in una sala piena di affreschi e macerie, oppure in movimento come la comparsa di un arabo e annessa starlet nel notturno caprese.

Assistiamo all'imprinting dell'autore prima con il verbo e l’immaginario Felliniano, poi con la sanguigna maieutica del regista Antonio Capuano. Scopriamo la genesi dell'idea di cinema come sollievo, fuga e distrazione da una realtà giudicata mediocre o da una vita che talvolta disinnamora.

Metà del racconto in "È stata la mano di Dio” vede, in primo piano, un amore coniugale fatto di complicità, litigi, gioco e progetti, la cui ritualità affettuosa è il segreto che fa superare i problemi. Poi, dopo lo strappo avvenuto nel climax drammatico, ci si concentra sulla rassicurazione che esista un tempo giusto per tutto. Per riuscire a piangere, per passare dal turpiloquio alle citazioni dantesche, per uscire dal nascondiglio di tutta una vita, per rinunciare a un sogno che non si ha la perseveranza di seguire, per andarsene da un luogo di cui in realtà siamo foderati dentro e perfino per commuoversi, da spettatori, su un piatto di canederli.

Se fosse Leone d’Oro, sarebbe il momento perfetto.

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