Emanuele Severino può essere annoverato tra i maggiori filosofi contemporanei. La complessità del suo pensiero, definito da alcuni neo-parmenidismo, lo ha spesso tenuto lontano dal grande pubblico. Al centro del suo sistema filosofico, l'idea che tutto è eterno, non solo ogni uomo e ogni cosa, ma anche ogni momento di vita, ogni sentimento, ogni aspetto della realtà, e che quindi niente scompare, niente muore. Nato a Brescia nel 1929, si è laureato a Pavia nel 1950 con una tesi intitolata Heidegger e la metafisica. Nel 1951 ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso l'Università Cattolica di Milano, dalla quale viene allontanato nel 1969 a causa delle sue idee in materia religiosa. Dal 1970 diventa ordinario di Filosofia teoretica presso l'Università di Venezia, dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989. È accademico dei Lincei. All'interno della sua sterminata produzione, ricordiamo: Destino della necessità (Adelphi, 1980), Essenza del nichilismo (Adelphi, 1982), La Gloria (Adelphi, 2001), Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli, 2011), La potenza dell'errare (Rizzoli, 2013).
Molti si interrogano sulle cause della crisi dell'Occidente. Lei individua la causa principale nel nichilismo che caratterizza la sua storia e che si fonda nella fede incrollabile nel divenire, ossia nell'idea che ogni cosa esca dal nulla e vi rientri, che possa diventare altro da ciò che è, e che in definitiva possa perire. Può approfondire?
«La crisi dell'Occidente è l'ultima fase della frattura estrema che sin dall'inizio si è presentata nell'esistenza dell'uomo. Proviamo ed avvicinarci al significato di questa affermazione richiamando ciò che nella dimensione religiosa vien chiamato peccato originale. Esso è la separazione di tutta l'umanità da Dio. Ogni uomo ne resta sfigurato. Il peccato corrompe perfino la natura. Però questo richiamo al peccato originale è anche fuorviante, perché il racconto biblico esprime soltanto una fede, cioè la volontà che il mondo abbia un certo senso piuttosto di altri; mentre nell'uomo appare una dimensione essenzialmente più alta di ogni fede: più alta perché la più incontrastabile. Nei miei scritti questa dimensione è chiamata destino della verità. In tale dimensione, la frattura estrema che sin dall'inizio si è presentata nell'esistenza dell'uomo ha quindi un significato che è a sua volta essenzialmente più alto e incontrastabile di quello che il peccato originale possiede nel racconto religioso».
Ma in che consiste tale significato?
«Lei ha richiamato alcuni tratti del modo in cui i miei scritti lo indicano. E chi legge ha subito l'impressione che essi esprimano una radicale follia. Giacché il divenire delle cose del mondo il loro consumarsi e perire, il loro non essere state in passato e il non essere più in futuro è considerato dai più la verità più evidente di tutte la verità che, appunto, è una follia negare. Tuttavia la teoria einsteiniana della relatività sostiene una tesi che è molto simile a questa follia. Non lo ricordo per avvalorare il contenuto dei miei scritti. Ormai la scienza riconosce di essere un sapere ipotetico, falsificabile. Lo è anche la teoria della relatività. Anche la scienza è una fede, sebbene più delle altre mantenga o sembri mantenere ciò che promette. Dato questo carattere delle sue promesse la gente, in genere, non si azzarda a mettere in questione il sapere scientifico; mentre non ha difficoltà a liberarsi dagli insegnamenti della filosofia. Sennonché la teoria einsteiniana della relatività sostiene qualcosa di molto simile a ciò che per i più è soltanto una povera follia. Detto alla buona, sostiene che il passato e il futuro non sono meno reali del presente».
E la frattura di cui parlava all'inizio?
«Il destino della verità di cui parlo nei miei scritti è l'essenza più profonda di ogni uomo. Essa è contrastata, in ogni uomo, dalla fede, cioè dalla volontà che il divenire sia la natura delle cose. Questo contrasto è la frattura cui facevo riferimento all'inizio».
Facciamo un passo avanti. Lei ha identificato la fede nel «falso» divenire come la follia che, se da una parte ha dato potenza all'Occidente, dall'altra finirà per condurlo al tramonto. Ritiene si tratti di una crisi non superabile?
«Il destino della verità mostra che la follia autentica è proprio la fede in quel divenire che, dicevamo, per lo più viene considerato come la verità supremamente evidente. Mostra che tutto è eterno. Non soltanto il divino, o la natura, o la quantità costante di energia dell'universo, o la materia: eterno è ogni evento, dal più grandioso al più umile, dal più felice al più infelice, ogni sfumatura, ogni istante del mondo e dell'animo. Anche ogni errare. Anche quel luogo eminente dell'errare che è l'Occidente. Tutto è eterno. E aggiungo che il tramonto dell'Occidente, come di ogni cosa, non è la sua distruzione e il suo annientamento come invece la cultura dell'Occidente stesso ritiene quando parla di tale tramonto ma è l'apparire del suo esser compiuto, è l'apparire del compimento del suo manifestarsi. Compiuto in senso analogo, dunque, a quello in cui si dice che la costruzione di una casa è compiuta. E l'errare dell'Occidente tramonta perché il destino della verità, non più contrastato dall'errare, incomincia ad apparire».
Se l'Occidente tramonta, qualche altra civiltà avanza e ne prenderà il posto?
«L'Oriente non è l'alternativa all'Occidente: ne è la preistoria, l'incubazione della malattia. Nessun'altra civiltà è l'alternativa. La morte è la liberazione totale del destino dall'errare. L'uomo errante muore all'interno di sé stesso in quanto destino della verità».
In cosa consiste il pericolo rappresentato dalla «tecnica» che da tempo denuncia?
«Nel suo significato originario, tecnica è la volontà di organizzare mezzi in vista della produzione di fini. La volontà di produrre si fonda sulla convinzione che le cose siano di per sé disponibili all'esser prodotte e distrutte cioè sulla convinzione che le cose sono di per sé stesse un diventar altro, da ciò che sono e da altro. Sul fondamento di questo senso del divenire, la tecnica guidata dalla scienza moderna si propone di assumere l'universo stesso come l'oggetto della sua volontà di organizzare mezzi per realizzare scopi. Ma va anche rilevato che sin dall'inizio la fede nel diventar altro pensa che l'uomo stesso è tecnica».
In che senso?
«È innanzitutto l'uomo a voler predisporre la propria volontà e il proprio corpo per realizzare ciò che egli vuole. Il che significa che quel che innanzitutto egli vuole è, appunto, volere. All'interno di quella fede l'uomo si pensa un essere provvisorio, effimero, che però vuol diventare il più potente possibile. Ma una volta che la filosofia, muovendo il primo passo decisivo dell'Occidente, porta alla luce il senso radicale del diventar altro, l'avvento della civiltà della tecnica è inevitabile. Tutte le critiche e le condanne che nella nostra cultura vengono rivolte alla tecnica sono condotte stando all'interno della fede nel diventar altro, cioè sono critiche che le forme meno potenti della tecnica rivolgono a quella più potente, ossia alla tecnica che procede secondo le strutture concettuali della scienza moderna».
Può spiegarci perché sostiene che nessuno muore realmente e che morire è solo lo scomparire di ciò che prima appariva? Che il divenire è illusorio e che ogni cosa, ogni accadimento, ogni individuo è eterno e in eterno ritorna?
«In qualche modo, la risposta è nella sua domanda. Per la prima volta nella storia la filosofia pensa il significato radicale del niente. Incomincia quindi a pensare la morte come l'andare nel niente, per lo meno da parte del corpo; ma ormai la morte dell'uomo è intesa come l'annientamento dell'intero essere umano. Ma ciò che si annienta è ciò di cui non c'è più esperienza, è ciò che non appare più. L'esperienza non può mostrare l'annientamento di chi è morto. Se e poiché ogni cosa è eterna, la morte, nella sua verità, non può essere l'annientamento di chi muore. Ciò che vien chiamato annientamento è quindi l'uscire degli eterni dall'esperienza, il loro scomparire. Scompaiono gli ultimi istanti di vita così come, prima della morte, sono scomparse tutte le fasi della vita di chi muore. Ma, eterni, sia quelli sia queste. Illusorio è il senso che la fede cioè il pensiero che si isola dal destino attribuisce al divenire. Nel destino della verità, quel che in tale isolamento è inteso come diventar altro e annientamento o uscire dal niente, è il comparire e lo scomparire degli eterni. Il cerchio dell'apparire, in ogni uomo, è l'apparire del destino. Lei accenna anche al ritorno degli eterni che sono scomparsi. Il loro ritorno è l'inizio del percorso infinito in cui i cerchi del destino si aprono al sopraggiungere della ricchezza inesauribile degli eterni».
Immagini di dover spiegare ai non addetti ai lavori i concetti fondanti del suo pensiero filosofico: gli «eterni», il cerchio dell'apparire, il destino della verità, la Gioia, la Gloria...
«Il nostro è il tempo della dominazione della forma più rigorosa della fede nel diventar altro, ossia della forma più rigorosa dell'errare. Ma, per lo più, l'errare non solo è vissuto senza sapere che esso è errare, bensì con la convinzione che esso sia indiscutibile, ma è vissuto in modo ingenuo, cioè senza scorgere la grandezza, la potenza, la profondità dei suoi contenuti. L'errare non è una povera cosa. Di più: il destino della verità è, nella sua essenza, negazione dell'errare; pertanto, se l'errare non esistesse - l'errare, dico, non l'errore - nemmeno la verità potrebbe esistere. Comprendere il senso della verità ignorando le ricchezze dell'errare è come voler avere esperienza del giorno senza aver mai avuto esperienza delle ombre e delle seduzioni della notte. E soprattutto le ombre e seduzioni della filosofia cioè della filosofia in quanto evocatrice del senso rigoroso della fede nel diventar altro costituiscono le ricchezze degli erranti. Innanzitutto queste ricchezze dovrebbero esser note a coloro ai quali si volesse far capire qualcosa di ciò che chiamo destino della verità. Solo allora si potrebbe accennare al significato della struttura originaria del destino, ossia al significato e al contenuto dell'innegabile».
E cioè?
«Con una metafora si può dire che l'innegabile è come un Bersaglio tale che ogni freccia scagliata contro di esso trafigge sé stessa un bersaglio dunque che non può essere colpito da nessuna freccia. Ma, daccapo, siamo davanti a una semplice metafora. L'essenziale è capire perché l'innegabile sia un siffatto bersaglio».
Può provare a spiegarcelo?
«Certo, si potrebbe dire, per quanto riguarda il senso generale del destino della verità, che esso mostra la destinazione di ogni uomo a una Gioia infinitamente più profonda di quella promessa dalle diverse forme sapienziali dell'errare. Ma questa affermazione, presentandosi separata dal Bersaglio a cui ho accennato, sarebbe inevitabilmente equivocata e suonerebbe come una povera presunzione. Si potrebbe rischiare, indicando, sia pure da lontano, perché è necessario che ogni cosa sia eterna. Così: Quando si pensa che le cose passate ad esempio la giornata di ieri sono andate nel niente, anche se di esse sono rimaste parti o aspetti o ricordi, si pensa che ora esse sono niente. Esse! E cioè: pensando che ora esse sono niente non si intende pensare che ora il niente è niente. Si intende pensare che la giornata di ieri ora è niente, cioè che un non-niente è niente. Si identifica il non niente - l'essente - al niente. Questa identificazione è la follia estrema. E l'esser niente da parte del non niente non solo è l'errore estremo, ma è anche l'orrore estremo, la violenza originaria che vuole che le cose siano di per sé stesse un esser niente.
Questa violenza sta al fondamento di ogni violenza da cui la storia dell'Occidente è stata accompagnata. È la violenza che oggi domina l'intero Pianeta. Se la follia estrema è pensare che le cose vadano nel niente, e ne escano, il destino della verità è la non follia in cui appare la necessità che tutto sia eterno».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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