Sì, proprio così, lei sembra arrivare da un altro mondo. Tori Amos risponde alle domande solo a occhi fissi e spalancati, non è mai banale, tutt'al più stralunata. «Mi sono tolta la maschera, ce l'ho fatta finalmente», dice con quel suo inglese molto americano perché lei arriva dalla Carolina del Nord. È in Italia perché canta dal vivo (stasera al Gran Teatro Geox di Padova) e soprattutto perché il suo nuovo disco su Mercury Classics, Unrepentant Geraldines, ha esordito nella top ten di mezzo mondo e le garantisce un tour mondiale di ottanta concerti. Una manna per una cantautrice parallela, ossia molto di successo ma molto poco visibile. La sorte tipica di chi non ha voglia di scendere a patti con il successo.
Però scusi i suoi ultimi dischi erano un po' autoreferenziali. Stavolta è la Tori Amos che tutti si aspettano?
«E anche il tour, che affronto da sola con un piano, è frutto di questo cambiamento. Tempo fa ho parlato con mia figlia Nastashya, che ha tredici anni e mi ha detto: «Sei forte, devi provare a te stessa di rock this house».
Insomma capace di mettere il mondo a ferro e fuoco.
«Una sfida che non potevo rifiutare. Avevo 49 anni e mi stavo preparando ai cinquanta. Non è stato facile. Ma adesso mi accorgo che la mia età è fucking amazing (terribilmente bella - ndr)».
Sembra il lamento della mezza età.
«Se hai cinquant'anni, a Hollywood ti cuciono un ruolo addosso. Se fai musica, no. Per capirci, a Hellen Mirren danno un film, mica fanno fare un tour mondiale. E poi io sono una donna, quindi ancor più penalizzata degli uomini, almeno in questo campo».
Allora avrebbe potuto scegliere di fare l'attrice.
«No, voglio rimanere padrona di me stesso. Un attore recita un copione. Io invece gestisco tutto ciò che mi riguarda, sono l'Harvey Weinstein di me stessa (lui è il produttore top di Hollywood - ndr). Anche se il glamour è solo sul palco e la mia vita è fatta di fatica, orari sfiancanti e viaggi impossibili».
Tori Amos, che è figlia di un reverendo metodista e di un'insegnante di origini indiane cherokee, ha esordito nel 1988 con un ignoratissimo disco hard rock (in Y Kant Tori Read suonava anche Matt Sorum, futuro batterista dei Guns N'Roses di Use your illusion), poi da Little earthquakes del 1992 in avanti ha iniziato a diventare una icona della canzone d'autore, impaginandola in quel pop da camera che ormai (cervellotiche divagazioni a parte) è il suo marchio di fabbrica. Quindici milioni di dischi venduti. Rispetto della critica. Pubblico tendenzialmente entusiasta a prescindere: «E ora ai miei concerti vedo sempre più persone giovani, buon segno».
Qualcuno ha addirittura la stessa età di sua figlia.
«Per la terza volta abbiamo cantato insieme (la canzone si intitola Promise - ndr). Non sa ancora suonare ma ha già iniziato a cantare. Il suo futuro? Sarei già felice se non diventasse una rapper... E in ogni caso da me avrà comunque appoggio e, soprattutto, un aiuto a non farsi troppe illusioni».
Lei se ne è fatte?
«Comunque non ho neanche un attimo di rimpianto: faccio quello che voglio».
Così libera da intitolare il disco alla protagonista di un quadro del pittore irlandese dell'Ottocento Daniel Maclise.
«Le Geraldine del titolo sono tutte quelle donne costrette a chiedere scusa per quello che pensavano. Nessuna deve farlo e tutte noi dobbiamo toglierci la maschera: io ce l'ho fatta».
Una Tori Amos arrembante.
«E voglio che il mio prossimo disco sia molto pop.
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