Cultura e Spettacoli

"La traviata" come un set. Martone: "È il teatro che si scioglie in cinema"

All'Opera di Roma cinque giorni di lavorazione. Con i personaggi fra platea, palchetti e corridoi

"La traviata" come un set. Martone: "È il teatro che si scioglie in cinema"

Sei metri di diametro per tre e mezzo d'altezza, tre tonnellate di peso, ventisettemila cristalli di Boemia. Il più grande e sfavillante lampadario d'Europa è sceso dal suo cielo di nuvole e cherubini, lassù sulla cupola, e ora sfiora in platea il capo di cortigiane e gentiluomini che brindano nei lieti calici. «Se non ci fosse stato il Covid - considera (con una punta d'amarezza) Mario Martone - chi avrebbe fatto di questo colosso il simbolo di uno spettacolo? È stata un'idea folle. Ma sono questi tempi, a essere folli. E noi ne accettiamo la sfida».

Così, se il Covid detta nuove regole, offre anche impreviste opportunità. Impossibilitato a dirigere La traviata come vuole il teatro, il regista napoletano trasforma in teatro (come già nel felicissimo Barbiere di Siviglia inaugurale dello scorso dicembre) tutta l'Opera di Roma. E riprende il singolare spettacolo per trasmetterlo su Raitre, domani sera alle 21,20. Attenzione, però: questa Traviata non sarà un film-opera (con riprese che durano mesi, e cantata in playback) e nemmeno la ripresa di un'opera teatrale (eseguita senza interruzioni e alla presenza del pubblico); quanto piuttosto, sintetizza Martone, «teatro che si scioglie in cinema. Quindi scene girate in cinque giorni, fuori dall'ordine cronologico e poi rimontate, ma con interpreti e orchestra che eseguono tutto dal vivo. E nella totale assenza di pubblico». Non basta: proprio il vuoto in cui la singolare performance è immersa finisce per fornirle la principale cifra stilistica: «Privati del teatro, ci siamo impossessati del teatro intero. Così, scesi dal palco, i personaggi vivono il dramma fra platea e palchetti, lungo scale, corridoi e saloni di tutta l'Opera di Roma. Il ballo del primo atto, che si svolge fuori scena, qui è eseguito nella Sala Grigia; gli snodi esterni - con Alfredo che si reca a Parigi o che sfida a duello Duphol - sono girati nella casa esterna dell'Opera, le Terme di Caracalla».

E il rilucente lampadario della cupola scende («grazie al meccanismo che si usa una volta l'anno, per pulirlo») a incombere su sfarzi ed eccessi del rutilante mondo di Violetta: «Un oggetto-simbolo, che ne simbolizza la fatua appariscenza. Come in certi quadri di Pizzi Cannella». E per l'ambientazione? Il regista di Noi credevamo e Il giovane favoloso crede troppo nell'attualità dell'800, per attualizzare quello di Verdi e Dumas come ormai fanno quasi tutti i suoi colleghi. «Dunque la nostra Violetta vestirà abiti dell'800, tratti dal repertorio del teatro e adattati da Anna Biagiotti. Io sono per la libertà assoluta in teatro. Purché sia motivata. E non diventi a sua volta una maniera; una convenzione alla rovescia». E la protagonista? «La vedo come la vedeva Verdi: una donna che si sacrifica per amore. Ma più consapevole. Violetta non rinuncia ad Alfredo solo perché lo ama; ma anche perché sa che la sua società, chiusa e prevaricatrice, non le lascia alternative. E cosa c'è di più attuale di questo?».

Martone (che spera nell'uscita del suo ultimo film Qui rido io, con Toni Servillo nei panni del celebre attore-autore partenopeo Eduardo Scarpetta) ne è convinto: tutto in Verdi ha un preciso significato drammaturgico. Perfino le famigerate zingarelle delle danze al second'atto, mal digerite dai registi (e qui curate dalla coreografa Michela Lucenti): «Non sono di maniera, rimandano all'elemento dionisiaco, alla forte temperatura erotica in cui Violetta e i suoi amici s'immergono, per stordirsi». Non tutto è stato facilissimo, naturalmente. Abituati a un'esecuzione frontale e col direttore bene in vista, i cantanti (la diva Lisette Oropesa è Violetta; Saimir Pirgu fa Alfredo, e Roberto Frontali papà Germont) hanno dovuto abituarsi a cineprese che li rincorrevano, li tallonavano, ne avvolgevano ogni gesto, «immergendo il pubblico direttamente dentro l'azione», e intanto buttare l'occhio ai monitor nascosti che rilanciavano loro gli attacchi del direttore Daniele Gatti. «La loro recitazione ha dovuto fondere quella teatrale, gestuale e corporea, con quella più essenziale del cinema. E come attori su un set dovevano mantenere costante la tensione espressiva, pur cantando scene differenti, mescolate fra loro». Un lavoro massacrante, confessa Martone, «ma anche galvanizzante. L'adrenalina s'è scatenata. Tutti si sono fatti contagiare in un'intesa incandescente. Per fare questo in soli cinque giorni ci volevano due folli come me e il maestro Gatti. Senza di lui sarebbe stato impossibile». Esperienza esaltante ma - come avverte la data che scorrerà nei titoli di coda: Roma, febbraio 2021 - del tutto contingente. «Il teatro vuoto in cui lavoriamo non l'abbiamo nascosto. Il pubblico deve sapere che, dietro questo spettacolo, c'è la sofferenza della pandemia. Anche se poi, vedendolo, dovrà dimenticarsene. Perché, pur essendo una soluzione interessante, questa Traviata è solo un'alternativa.

Il teatro vero resta insostituibile».

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