"Vele, scafi e naufragi faccio rivivere il romanzo della marineria antica"

Ne «Il Testimone» l'archeologo subacqueo mette tutta la sua conoscenza del Mediterraneo

"Vele, scafi e naufragi faccio rivivere il romanzo della marineria antica"

Stefano Medas è un archeologo subacqueo ed è stato professore universitario di Storia della navigazione antica e di Storia e archeologia navale del mondo fenicio-punico. Sta ora arrivando in libreria il suo romanzo Il Testimone (Mondadori, pagg. 336, euro 20) che porta il lettore sulle pericolose rotte marittime del Mediterraneo all'epoca di San Paolo. Anzi al centro della narrazione, il cui protagonista è un giovane intellettuale e copista alessandrino di nome Callimaco, c'è proprio l'episodio del viaggio del teologo cristiano portato a giudizio a Roma nel 60 d.C. circa come raccontato negli Atti degli apostoli.

Professor Medas, la navigazione antica è perfetta per fare da sfondo a un romanzo, è il regno dell'incertezza...

«Sì, come diceva lo storico Fernand Braudel, si sa quando si parte ma non si sa quando si arriva né se si arriva. Le navi mercantili romane con la loro propulsione a vela erano in costante balia del meteo. Non esisteva poi la cartografia nautica e non esistevano quei metodi per fare il punto nave che si sono sviluppati a partire dalla fine del Medioevo. Come scriveva già Esiodo ne Le opere e i giorni il commercio marittimo era il pericolo massimo. Il rischio del naufragio sempre presente. Eppure il Mediterraneo era trafficatissimo. E non solo questo, le navi si spingevano sino nell'Atlantico o verso l'Oceano Indiano passando dal Mar Rosso. I navigatori utilizzavano delle tecniche molto più simili a quelle dei polinesiani che a quelle nate dopo il Medioevo».

Eppure il viaggio via nave era preferibile rispetto a quello via terra...

«Certamente. La capacità di carico delle navi era incommensurabilmente più alta e per quanto le strade romane fossero relativamente ben tenute la distanza percorribile ragionevolmente con i carri era sempre di pochi chilometri per volta. E poi c'erano rischi altissimi con i banditi e i predoni. Per quanto riguarda le navi da carico nel Mediterraneo, tolto il piccolo cabotaggio c'era una stagione ritenuta propizia per i viaggi che andava da marzo a ottobre. Negli altri mesi la navigazione era vivamente sconsigliabile. Si muovevano quasi solo le unità militari. I romani chiamavano questo periodo mare clausum e le assicurazioni, che erano piuttosto diffuse, in quel periodo si rifiutavano di assicurare i carichi o chiedevano polizze esorbitanti».

Come erano costruite le navi antiche?

«In modo molto diverso dalle nostre anche a livello concettuale. Non esisteva un vero e proprio progetto. Venivano usate delle mezze dime e delle maschere che venivano riadattate ad ogni nuovo progetto. Lo scheletro dello scafo aveva molta meno importanza che nelle navi odierne. La costruzione era portata avanti dal basso con sezioni della chiglia tenute assieme da moltissimi perni di legno. Il sistema chiamato a mortasa e tenone oppure con i corsi del fasciame cuciti tra di loro. Lo scheletro veniva inserito dopo ed era di rinforzo molto meno strutturale. Privilegiavano la flessibilità alla rigidità. Di alcune di queste navi sono state costruite repliche moderne. Hanno qualità nautiche eccellenti per il contesto in cui erano usate».

Le merci più trasportate?

«Generi alimentari, come grano, vino e olio. Ma esistevano anche navi per trasporti speciali. Ad esempio le navi lapidarie che erano utilizzate per trasportare i grandi obelischi. Oppure le navi utilizzate per trasportare gli animali vivi. Molti portici libici come Leptis Magna prosperavano proprio sulle bestie esotiche utilizzate negli spettacoli dei circhi. Ma venivano imbarcati anche molto più modesti carichi di vetri rotti che venivano poi rifusi per riciclarli. Gli antichi erano moderni anche in questo».

E i passeggeri?

«Non esistevano vere e proprie navi passeggeri. Le persone si imbarcavano sui cargo come potevano, spesso dormendo sul ponte o nella stiva in mezzo alle merci. Una modalità che in fondo è durata sino al XIX secolo. Ovviamente gli standard di viaggio, come faccio anche capire nel romanzo, potevano essere molto diversi. C'erano le navi annonarie di grandi dimensioni, con un servizio quasi regolare e marinai esperti, erano anche dotate di rudimentali cabine per i passeggeri più facoltosi. E poi c'erano delle vere e proprie carrette del mare con i capitani indebitati sino al collo ed equipaggi molto raccogliticci. In ogni caso il prezzo di viaggio comprendeva solo l'acqua potabile, per il cibo ogni viaggiatore doveva provvedere a se stesso».

Era possibile perché gli spostamenti avvenivano tra una rete di porti efficienti.

«Da questo punto di vista gli antichi erano modernissimi. Esistevano porti internazionali, diciamo così, in cui arrivavano le merci portate dalle grandi navi commerciali, poi venivano redistribuite col commercio locale. Trovare una nave con anfore di vino fenicio non deve immediatamente far pensare che la nave venga dalla Fenicia. Le merci cambiavano spesso vettore. Lo sforzo per la costruzione e il mantenimento dei porti era enorme. Roma non ebbe un porto vero e proprio sino a che non fu realizzato quello di Fiumicino iniziato sotto Claudio e terminato sotto Nerone. Un'opera gigantesca ma tendeva a insabbiarsi».

Da archeologo marino qual è il ritrovamento che sogna di fare?

«La gente ci immagina sempre come Indiana Jones a caccia di tesori.

Ma in realtà quello che speriamo tutti di trovare è quel reperto che dimostri che la storia è diversa da come la conosciamo, che generi conoscenza nuova, non per forza un oggetto prezioso. L'archeologo deve partire sempre dal capire esattamente cosa ha davanti. E per farlo non deve avere tesi preconcette».

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