La versione di Federzoni sulla caduta del fascismo

Le memorie del gerarca svelano i retroscena del 25 luglio 1943: "Fu Mussolini a tradire noi"

La versione di Federzoni sulla caduta del fascismo

Nella seduta del 25 luglio 1943 chi tradì: i congiurati o Mussolini?

Luigi Federzoni non aveva dubbi e lo scriveva nel suo Diario di un condannato a morte che scrisse tra il 19 settembre 1943 al 4 giugno 1944, quando era rifugiato presso l'ambasciata portoghese alla Santa Sede e che solo ora, dopo settant'anni, è pubblicato dall'editore Angelo Pontecorboli: «Se fra noi e lui ci fu un tradimento, fu il suo; fu quello con cui egli premeditò di imbottigliare anche noi, a nostra insaputa e a nostro malgrado, nella responsabilità della guerra».

Mussolini unico responsabile della guerra e della dittatura? Sarebbe troppo comodo e, anche se in queste pagine Federzoni si autoassolve, il Diario di un condannato a morte è prezioso perché fornisce notizie su come e perché si svolse la seduta del Gran Consiglio e dà una cronaca dei dieci mesi in cui Mussolini è liberato dai tedeschi, nasce la Repubblica di Salò, cinque dei congiurati sono processati a Verona e uccisi come traditori, è assassinato Giovanni Gentile, è liberata Roma questa Città dell'Anima. Lo stesso Diario ha una sua storia particolare.

Luigi Federzoni (1878-1967) - fondatore con Enrico Corradini dell'Associazione nazionalista italiana, ricoprì cariche politiche, istituzionali e culturali durante il regime fascista - affidò il suo Diario a Carlo Sommaruga affinché, in qualità di diplomatico, lo portasse a Lugano per farlo custodire dal vescovo Angelo Giuseppe Jelmini. Solo in anni recenti le carte sono state donate all'Archivio centrale dello Stato e ora il Diario è pubblicato in una edizione critica curata da Erminia Ciccozzi e con due saggi di Aldo A. Mola e Aldo G. Ricci.

Federzoni morì nel 1967 e Mondadori pubblicò il volume postumo Italia di ieri per la storia di domani dove vi sono pagine che attingono alle memorie del gerarca, nel 1993 poi l'editore Passigli pubblicò 1927: diario di un ministro del fascismo e, infine, nel 2013 presso Le Lettere uscì Memorie di un condannato a morte. Tuttavia, il Diario è un testo inedito che, oltre a fornire notizie, conserva il fascino di un testo letterario e politico di «questo povero italiano - come dice Federzoni -, che dovrà inevitabilmente scontare, insieme con i suoi errori, la disgrazia di essere detestato dagli invasati dell'antifascismo settario non meno che dai malfattori del fascismo estremista: posizione mediana disagevole e pericolosa, ma che potrebbe forse legittimare la sterile illusione di essere stato sempre, sostanzialmente, abbastanza vicino al giusto e al vero».

In fondo, il Diario di Federzoni è una sorta di ravvedimento che si fece luce in lui già prima della metà degli anni Trenta: staccare il destino nazionale dal regime fascista. Non è un caso che in queste pagine non compaia solo Mussolini ma anche Togliatti e Federzoni, recluso nelle stanze dell'ambasciata, capisce lucidamente cosa sta accadendo con la svolta di Salerno quando il leader comunista chiede il rinvio alla fine della guerra della soluzione della questione istituzionale - ossia se salvare o no la monarchia - per appellarsi ai partiti antifascisti e creare un governo di unità nazionale e sconfiggere definitivamente i tedeschi.

In queste pagine Federzoni non risparmia critiche a Croce e, tuttavia, è singolare che mentre Federzoni scriveva nel suo diario il lucido giudizio sul compagno Ercoli, la stessa cosa faceva Croce e con un giudizio molto simile. «La presa di posizione di Togliatti - scriveva Federzoni - corrisponde esattamente al realistico e spregiudicato indirizzo generale della politica di Mosca» e «Togliatti stesso è un fiduciario di Stalin». Federzoni capisce che da lì viene un pericolo serio ma non se ne può fare altrimenti e l'Italia «dovrà correre il rischio di diventare, come la futura Jugoslavia, un pianeta un po' più grosso nel sistema di cui Mosca è il sole». Vale la pena di sottolineare che tutto ciò sarà confermato dalla storia e dai documenti sovietici, pubblicati venti anni fa da Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky. In questo pericolo che correva l'Italia di cadere da una dittatura in un sistema totalitario, il riferimento di Federzoni era la monarchia. Lo stesso riferimento che ci fu prima, durante e dopo la seduta del Gran Consiglio.

L'ex presidente del Senato, nel ricostruire i fatti dice che la seduta si tenne proprio per dare a Vittorio Emanuele la possibilità di revocare il mandato a Mussolini. La monarchia fu informata tramite il ministro della Real Casa, Acquarone, e l'obiettivo era uno solo: «L'eliminazione di Mussolini». Il motivo era uno: l'Italia, che aveva già sul suo suolo i nemici, futuri alleati, non poteva più sostenere la guerra. Mussolini una settimana prima incontrò Hitler a Feltre e non riuscì a dirgli che l'Italia non ce la faceva più, ma Hitler capì che non poteva fidarsi neanche più di Mussolini che, come scriveva Federzoni, era ormai «un vecchio giocatore d'azzardo».

E, infatti, in quelle lunghe dieci ore della drammatica seduta, in cui i membri del Gran Consiglio erano persino armati di pistole e bombe a mano, il «dittatore deposto» era stanco, fiacco, disilluso: «L'incanto era rotto». Federzoni chiude così: «Il Gran Consiglio per vent'anni era vissuto male, ma aveva saputo morire bene».

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