Prima visione

Un quarto di secolo dopo Terminator di James Cameron, la vicenda delle macchine contro gli uomini giunge al quarto episodio, Terminator Salvation di McG, ambientato nel 2018, quando l’incubo annunciato nei precedenti film è realtà.
A forza di automazione, calcolatori e altri «progressi», l’uomo è diventato schiavo di ciò che ha inventato. L’idea era venuta a Cameron sulla falsariga della fantascienza apocalittica, a sua volta ispirata dalle intuizioni di Spengler e Heidegger sui rischi della tecnica.
Una buona idea era stata dare ad Arnold Schwarzenegger, allora quarantenne, il personaggio del robot cattivo; poi, nel séguito, di dargli - pur nelle sembianze dello stesso robot - il personaggio del buono e opporgli un robot più perfezionato e cattivo (l’attore era Robert Patrick).
Ora anche in Terminator Salvation c’è un breve omaggio all’attore austriaco, intanto diventato governatore californiano. Ma il punto di forza del film è diverso da quello dei precedenti. Ci si basa infatti sull’ambientazione desertico-futuristica, come nella serie postapocalittica di Mad Max, più che sulla figura demiurgica.
Resta come perno il personaggio di Conor (Christian Bale), quello che nei precedenti film doveva essere ucciso da bambino o da ragazzo, perché, da grande, non guidasse la resistenza all’oppressione delle macchine. Resistenza condotta da piccoli gruppi in lotta contro i perfezionati strumenti dell’intelligenza artificiale.
Tanto artificiale che l’importante è non cercare di capire. Basato sul movimento, anzi sulla concitazione, e sugli effetti speciali, Terminator Salvation cerca un po’ di spessore e di mistero in un secondo personaggio, un uomo-macchina (Sam Worthington) che viene guardato con sospetto per la sua duplice natura.
Quanto all'interpretazione della storia, che mostra un Paese arretrato, occupato da invasori superiori agli occupati, Terminator Salvation si propone per una lettura terzomondista.

Chi lo guarderà fra un quarto di secolo, potrà anche prenderlo per un tipico film dell'era Obama. Ma la sua ideazione è frutto dell'era Bush, che ha avuto, almeno, il merito di indurre gli sceneggiatori americani a vedere il mondo nella prospettiva dei non americani.

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