Prima visione

«Chi dice umanità vuole ingannarti», notava Carl Schmitt ben prima che molto cinema «da festival» divenisse umanitario... Triage (Scelta) di Danis Tanovic, che ha aperto l’ultimo Festival di Roma, è l’ultimo film del filone: ogni episodio è verosimile, eppure il senso è lo stesso delle menzogne seriali delle tv quando devono chiamare missione di pace un’aggressione. Con l’aggiunta dell’origine bosniaca del regista - lo stesso dell’eccellente No Man’s Land, premio Oscar -, che abiliterebbe all’insegnamento umanitario per aver scontato crudelmente a Srebrenica d’aver sterminato, prima, migliaia di serbi.
Il personaggio principale di Triage, ispirato dalle memorie di Scott Anderson, è un fotografo di guerra. È vero che essi hanno più incidenti che i fotografi di matrimoni cari a Bellocchio; è vero che nelle guerre ci si ammazza e che in tal caso morire all’istante è raro privilegio, così occorre una mano pietosa che acceleri il destino. È falso invece che in guerra i morti siano migliori di chi li ha resi tali: invece sono stati solo peggio comandati, peggio armati, peggio addestrati. Insomma, più deboli. E meno fortunati.
I fotografi di guerra sperano di cogliere la morte altrui al punto da far talora la stessa fine, come nel caso di Robert Capa, di cui tanti conoscono le immagini, specie quelle inventate. In Triage, il personaggio di Colin Farrell è appunto uno di loro, che agli inizi del 1988 va in Irak per la guerriglia curda, aizzata dagli iraniani e dai siriani. Un suo collega salta su una mina antiuomo (specialità italiana... ); lui cerca di salvare ciò che ne resta, circa la metà. Non ci riesce e così rimuove l’evento, finché, tornato in Irlanda, riesce a ricordare...
Al centro della vicenda non ci sono i combattenti. È logico: a chi, in Occidente, fra gli spettatori, interessano davvero iracheni arabi e iracheni curdi? Sullo schermo ci sono solo come sfondo per il fotografo, la sua donna, il suo amico, la sua donna, infine il figlioletto di quest’ultima. «Chi dice umanità... ».


L’interpretazione di Farrell del fotografo è febbrile, ma anche poco verosimile, anche perché si astiene dal sano cinismo che - in mancanza di meglio - ripara sommariamente dallo spettacolo del dolore. Il momento migliore è il ricordo africano, con gli scheletri dei bambini da «riconoscere». Ma è un attimo.

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