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La vita è una galera Basta leggere Rachel Kushner

In «Mars Room» l'autrice americana conferma la fama da dura e racconta di una ergastolana

Stefania Vitulli

Alla ricerca di romanzi che stiano alla larga da questioni minimali e diano priorità a domande che cambino il corso di un'esistenza («Pago l'affitto o mi faccio arrestare?») e da una direzione narrativa mitologica, si trova sulla propria strada Mars Room di Rachel Kushner (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato, pagg. 336, euro 20). L'autrice è quella di Braci nella notte e I lanciafiamme (Ponte alle Grazie). Quella che - americana dell'Oregon, classe 1968 - viene ormai troppo spesso paragonata a Jonathan Franzen (il quale a sua volta dice che i libri della Kushner sono i migliori). Quella che, quando le si chiede a che cosa attinga per poter creare protagonisti così definitivi, lanciati a velocità folle nell'esistenza fino a farsene bruciare, o come faccia a sapere così tanto di temi così vasti - colonialismo, cronaca e politica italiana del Novecento o arte contemporanea e, in questo ultimo lavoro, il sistema carcerario americano (ma questo, nei Ringraziamenti finali, lo rivela), risponde: «Quello che trasformo in fiction evolve direttamente dai miei interessi. C'è una connessione naturale tra la mia vita e i soggetti della mia scrittura».

Viene allora da chiedersi, fin dalle prime pagine di Mars Room, che cosa abbia in comune con la protagonista di questo libro, Romy, la Kushner e si capisce subito che le due hanno lo stesso carattere. Rachel Kushner è una scrittrice eterodossa e spavalda, con uno stile divorante, trame indimenticabili e una bella faccia da schiaffi, che con questo Mars Room si avventura nei territori criminali e mentali di Edward Bunker e James Frey. Una che pensa che l'autore più sottovalutato al mondo sia Curzio Malaparte («Ma è normale: l'ambiguità morale è destinata a chi può capirla. Altrimenti è solo molto pericolosa»); una che va a lezione da Nietzsche («Mi ha insegnato a considerare me stessa il mio destino»); una che ha deciso di competere solo con autori morti, come le ha consigliato il suo compagno; una che pensa che la letteratura debba essere arte, irriducibile a un messaggio, e proprio per questo sia politica e dunque una che afferma che il successo è dei perdenti.

Romy, da parte sua, è una femmina cazzuta senza perdere la tenerezza: è in galera prigione è parola troppo raffinata per quel che le accade e sconta due ergastoli. Ha ucciso un uomo, ma pare che a nessuno importi il motivo.

È lei che ci fa comprendere come la galera sia la peggiore delle scuole di vita, ma di come sarebbe la migliore se di vite potessimo averne due, perché alla fine siamo «soltanto persone smaniose di vedere le altre finire sotto il martello che pendeva sulla loro testa». Tra le donne quelle americane così saldamente, all'apparenza, alleate nel #MeToo, movimento che dopo aver letto questo libro si sospetta sia una nicchia di una nicchia liberal chic - non c'è nessuna empatia, o in breve i poliziotti verrebbero messi sotto e si potrebbe filare in Messico con le loro auto.

Romy è un animale con pochi mezzi per provare a ritenersi umano: biancheria per il letto, un bicchiere di plastica (l'unico che riceverà in dotazione, che perde pensando che sia usa e getta e che sostituisce con una lattina presa dalla spazzatura, lattina che userà per un anno e mezzo per bere acqua), Manuale del condannato stilato dal California Department of Corrections e quaranta pagine di Guida al Manuale del condannato. Uno dei momenti più belli di Romy in galera è poco dopo l'arrivo, quando la sua compagna di cella le mostra il tatuaggio sopra il culo. Dice «Chiudi quella cazzo di bocca» e funziona: Romy smette di piangere, smette di sperare di svegliarsi in un posto diverso.

Le rimangono i ricordi: il suo lavoro al Mars Room è uno di questi, anche se non il più piacevole. Al Mars Room si balla per i clienti, versione ufficiale, e ci si prostituisce in vari modi, versione reale. Ma come Romy ne racconta i retroscena vale tutto il romanzo. Vedi le russe, ad esempio: «Quando cominciarono a ballare al Mars Room, imposero una nuova tirannia postsovietica, una corroborante mancanza di riguardo per costumi e fascino, per qualunque cosa non fosse direttamente legata al profitto. Quasi tutte facevano lavoretti di mano tra il pubblico, riducendo all'osso il nostro lavoro». E poi ci sono altri ricordi, quelli che permettono di non impazzire, che avvicinano Romy a tutti noi, «gente buona a niente, che non sa nemmeno sfiatare un tubo della fognatura», ricordi di un futuro possibile, come quello di suo figlio Jackson quando aveva cinque anni e vede per la prima volta i colori dell'autunno, le foglie oro e scarlatte.

La madre di Romy è con loro: «Tanta bellezza per niente, domani saranno cadute», dice. «Ma dopo che cadono, sull'albero crescono le foglie nuove, nonna, che poi si colorano, come queste... Mia madre l'aveva guardato come chiedendosi da che pianeta venisse».

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