Cultura e Spettacoli

Zucchero tra blues e Tarantino. "Porto il mio soul all'Arena"

Oltre centomila persone per i suoi undici show con una superband. L'artista: "Poi canterò in tutto il mondo"

Zucchero tra blues e Tarantino. "Porto il mio soul all'Arena"

nostro inviato a Verona

No, lui non fa una piega, a scalmanarsi è il pubblico in platea. Canta e suona concentratissimo. Zucchero ha iniziato così ieri sera, a cavallo tra pioggia e vento freddo, il primo degli undici concerti consecutivi all'Arena di Verona, uno show per oltre centomila persone che lo conferma come uno dei grandi mattatori dei nostri concerti (dopotutto il suo appeal è stato confermato anche dallo speciale che Giletti gli ha dedicato su Raiuno con un 19,4% di share per 3 milioni e mezzo di spettatori). Il palco qui all'Arena è zuccheroso, nel senso che ritrae il suo mondo tarantinano e blues allo stesso tempo, con un megaschermo a forma di cuore e le finiture che sanno di Delta del Mississippi, di fumo e whisky e disperazione.

In più c'è una band oggettivamente superiore alla media che Zucchero presenta come «probably one of the best in Europe»: la violinista con i capelli rossi Andrea Whitt, la batterista con i capelli viola Queen Cora Dunham e poi tra gli altri Mario Schilirò alla chitarra, i cubani Lazaro Oviedo Dilout e Carlos Minoso ai fiati, il solito Polo Jones al basso e il leggendario Brian Auger all'Hammond, uno che in mezzo secolo ha suonato pure per Led Zeppelin e Rod Stewart. «Con una band così numerosa devo concentrarmi di più», ha detto il capobanda prima di salire sul palco. E in effetti il muro del suono arriva a un livello inedito persino per Zucchero già dalle prime canzoni Partigiano reggiano e 13 buone ragioni che aprono i tre capitoli dello show: «Il primo è dedicato quasi per intero al mio ultimo disco Black cat, il secondo racconta molto di Chocabeck e il terzo è più che altro dedicato alle hit del passato», aveva spiegato lui al termine delle ultime prove generali. Difficile, bisogna ammetterlo, vedere uno Zucchero più in forma: ha trovato il proprio equilibrio tra pulsioni radiofoniche e amore per il passato mettendo in piedi uno show che è allo stesso tempo molto italiano ma per nulla folcloristico. Per dirla tutta, è un concerto che non avrebbe problemi di identità neppure a Nashville tanto è credibile e ben suonato. Sembra quasi di ascoltare i brani come sono stati suonati nei dischi, ossia precisi, puntuali e densi di sfumature sonore. Insomma, il contrario del modello Bob Dylan, che dal vivo stravolge le proprie canzoni: «L'ho sentito una sera a Firenze e non ci ho capito nulla», riassume Zucchero che è in una fase creativa che molti sottovalutano.

E questo sontuoso concerto la conferma: «A questa età non me la sento di fare il ragazzino e cantare di ragazzine in blue jeans», dice. Insomma, sa combinare nostalgia e sperimentazione senza essere né troppo vintage né troppo incomprensibile.

Per di più non è mai stato così attivo: adesso parte un tour mondiale che lo porterà pure in Nuova Zelanda, poi ci sono in programma alcuni concerti negli stadi italiani nella prossima estate, la nascita di una sua etichetta discografica e un progetto già benedetto da Dan Aykroyd e Jim Belushi: «Mi lasciano aprire una House of Blues a casa mia a Pontremoli. Quando mi sarò stancato di andare in giro per il mondo, suonerò stabilmente lì», dice lui ben sapendo che quella è una ipotesi molto lontana. Lo Zucchero che recupera in scaletta, come in queste sere all'Arena, brani trascurati come Eccetera eccetera o Iruben me (intensissima con il coro che si intreccia con le chitarre e l'Hammond) è un artista tutt'altro che stanco.

E ce ne fossero, a dirla tutta.

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