Una donna sui cinquant’anni, impiegata in un fitness
center, deve farsi un bel lifting generale (occhi pancia tette ecc.).
Non ha i soldi per farlo, ma in compenso ha trovato un documento
compromettente smarrito da un cliente della palestra. Così trova
perfettamente logico ricattare quest’uomo affinché, in cambio del suo
documento, le dia i soldi per il suo lifting. Non è una notizia, è un
film: Burn after reading
dei Fratelli Coen. Non è un film demenziale. La donna ha le sue
ragioni: avrò pure il diritto di farmi il mio lifting. C’è qualcosa da
comprare e qualcosa da vendere? Se sì, che problemi ci sono?
Lo
stesso pensano tante belle ragazze, figlie di buona famiglia, con sogni
di carriera nel cinema e di matrimonio con tanti bei bambini, che senza
essere per forza delle puttane vogliono comunque ricavare qualche soldo
dalla loro avvenenza.
Anche vostra figlia la pensa così: andate a
dare un’occhiata alle sue foto su Facebook. Se c’è qualcosa che si può
mettere sul mercato perché non farlo? È il mercato globale, pupa. E se
un signore di nome Nikolai Ivanisovich, malato di cancro, decide, grazie
a un munifico miliardario inglese di nome Alki David, di morire in
diretta tv con un’iniezione letale che frutterà alla famiglia del
disgraziato una somma considerevole, che male c’è?
È normale. Siamo nella civiltà del che male c’è? Lo prova il fatto che non si vede in giro nessuno che si domandi che bene c’è?
Anche perché del bene, così poco addomesticabile, abbiamo tutti un po’ paura.
Il sig. Ivanisovich non fa del male a nessuno: questa è una cosa che
non bisogna prendere troppo sottogamba. Chi sta per morire si preoccupa
del futuro della sua famiglia, e Ivanisovich ha risolto questo problema
grazie ad Alki David, che a sua volta grazie al povero malato potrà
aprire un nuovo settore di mercato. Anche la sua famiglia, forse, si sentirà beneficiata da questa strana ma risolutiva idea.
Ma il comprare e il vendere possono offrire uno straccio di significato
per una vita come la nostra, che è così breve? Mi viene in mente una
scena de I Demoni
di Dostoevskij, quando Verchovenskij raggiunge Kirillov, che sta per
uccidersi, e gli dice qualcosa come: già che ci sei, potresti scrivere
una lettera in cui ti dai la colpa della morte di Shatov (che era stato
ucciso proprio da Verchovenskij)? Qui è un po’ lo stesso: già che si
deve morire, perché non guadagnarci qualcosa? Non faccio la morale, mi
chiedo soltanto cosa succede a un uomo che sta morendo: di che cosa avrà
bisogno? Forse, prima dell’iniezione letale, il sig.
Ivanisovich
verrà rimbambito abbastanza per non dare sorprese, che so, un urlo
finale, non voglio morire!, oppure la richiesta angosciosa di aiuto, di
una mano da stringere, oppure un moto di improvvisa insofferenza verso
quella telecamera. Pretese assurde: il contratto è stato firmato, sì o
no?
Peggio ancora sarebbe, però, se quest’uomo se ne restasse
lucido, tranquillo e sereno, magari solo un po’ sedato dalla morfina, a
fare da testimonial della propria morte, e se ne andasse con un «bye
bye» scritto sulla faccia, senza sussulti, senza nessun grido,
perfettamente soddisfatto delle condizioni del contratto.
Quello che è certo è che uno spettacolo così getta una specie di colata di cemento sulla morte: il dramma dell’uomo, i suoi pensieri, i suoi tormenti, la sua sofferenza psichica prima ancora che fisica, che fine faranno, davanti alla telecamera? Chi li raccoglierà?
Ci sarà qualcosa da raccogliere?
In fondo, tutti noi ci metteremo davanti alla tv per un’altra ragione: non per condividere i suoi drammi personali, ma solo per vedere un corpo che muore.
Questa è la vera sconfitta.
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