La storia racconta, sulla base di documenti attendibili, che Georges Simenon fu un incallito donnaiolo. E la leggenda, alimentata dallo stesso scrittore, aggiunge sorridendo sotto i baffi che le sue compagne furono ben diecimila (oltre il 99 per cento delle quali, per ovvia mancanza di tempo e non di intesa erotica, sono collocabili nella ben nota e maschilistissima categoria della «botta e via»). In uno dei famosi Dictées, le confessioni fatte, a partire dal 1973, non più indirettamente tramite i personaggi dei suoi romanzi e la macchina per scrivere, ma in modo più tranchant, parlando a ruota libera con di fianco il magnetofono acceso, Simenon si lanciò in un elogio della lussuria, dichiarando fra l'altro: «Ho bisogno, per non sentirmi prigioniero della società, di accarezzare una coscia al volo, di fare l'amore senza bisogno di dichiarazioni, di praticare il sesso, da un momento all'altro, nel mio ufficio come si trattasse della foresta equatoriale o di Tahiti. E parlo con cognizione di causa».
Ma se nella vita dell'uomo Simenon le donne erano un bisogno primario da soddisfare più volte al giorno, come il mangiare, il bere e il fumare, nella vita dello scrittore Simenon c'è quasi sempre in primo piano una sola donna per volta. Insomma, passando dal letto o dal divano alla scrivania, il satiro diventa un corteggiatore fedelissimo, un amico, un tutore che si dedica alla sua diletta. Raramente capita che le signore o signorine si contendano la scena, accendendo il fuoco della gelosia. Accade a esempio con In caso di disgrazia, quando Yvette Maudet, giovanissimo e disinvolto bocconcino che si propone all'avvocato Lucien Gobillot, deve fare i conti con la di lui matura e altera consorte Viviane. Oppure quando La vedova Couderc, avendo individuato nell'avanzo di galera Jean la strada per allontanarsi da un triste declino, s'accanisce contro la nipote Félicie, colpevole d'avere fatto breccia nel cuore del bel delinquente.
C'è però una donna, nell'infinita galleria simenoniana, la quale merita, potrebbe dire Virginia Woolf, una stanza tutta per sé, una stanza da cui non uscire mai, restandovi aggrappata come una cozza allo scoglio. È, infatti, una «cozza», volgarmente parlando: brutta, goffa, ignorante, e per di più ha nel Dna la mentalità da serva. È Marie la strabica, e su di lei hanno scherzato sia il destino, facendola nascere con quel difetto, sia la medicina quando, bambina, venne sottoposta a un intervento chirurgico il cui risultato fu che l'occhio guasto, invece di guardare da una parte, prese a guardare dall'altra. «Strabico» è anche Simenon nel raccontarci la sua vita in simbiosi con l'amica Sylvie, suo esatto opposto: bella, disinvolta, non colta ma almeno in grado di costruirsi un uso di mondo sufficiente a usare anche gli uomini. Marie la strabica, ultimato il 17 agosto 1951, fa parte della corposa produzione del «periodo di Shadow Rock Farm», la fattoria nei pressi di Lakeville, nel Connecticut, e lo strabismo dell'autore consiste nel mantenere costantemente, perdonate la battuta scontata, un occhio di riguardo per quella che dovrebbe essere la spalla della mattatrice, e che lui trasforma nell'unica vera regina del romanzo.
Marie e Sylvie sono nate quasi insieme nel 1904 o 1905 (la prima ha dieci mesi più della seconda) a Rochefort, nella Charente. La madre di Marie fa la domestica, il padre di Sylvie è capomastro all'arsenale. Le incontriamo in apertura, sul finire dell'estate, nella stanza che dividono di fianco all'hotel-ristorante dove lavorano, Le Ondine. Siamo nel 1922 e le due ragazze, assunte per la stagione dai coniugi Clément, vogliono raggranellare un po' di franchi per poi trasferirsi a Parigi. L'una, ovviamente Sylvie, a cercare fortuna sotto forma di un buon partito, l'altra... beh, l'altra semplicemente perché non saprebbe che fare, da sola, senza poter pettinare, la sera, i bei capelli biondi dell'amica, senza svegliarla, la mattina, con il solito: «Alzati, pigrona!».
Chi già pregusta una pruriginosa storia di genere lesbo, soft come in The Children's Hour (da noi, La calunnia) di Lillian Hellman, il dramma teatrale del 1934 portato al cinema due volte da William Wyler, o hard come nei romanzi a tinte fosche della gallese Sarah Waters, è completamente fuori strada. Simenon non deroga alla sua legge: il sesso si fa, non si scrive, e se poi in campo ci sono due donne...
Torniamo nella stanza di Marie e Sylvie. Anche perché, quando avremo finito di leggere, ci parrà di non essere mai usciti da lì. Simenon, grande conoscitore dell'universo femminile, questa volta si è preso una bella (anzi, brutta) gatta da pelare. Ma pelandola ci fa capire che non c'è verso: per gli uomini il legame amicale fra donne resta un mistero insondabile. Prima del trasferimento a Parigi, Sylvie, per qualche dolcetto in più, seduce un minorato mentale che poi si ammazza, sopraffatto dalla vergogna; poi si dà al padrone dell'hotel-ristorante, lasciandogli nei pantaloni il terrore che la moglie venga a saperlo; quindi passa a un cliente. E Marie, che disapprova ogni sua mossa, ogni suo gesto, è sempre lì, nel letto a fianco, ad aspettare o a vegliare l'altra. Non è, il suo, opportunismo, e neppure amore. Forse, è l'istinto materno di una zitella per vocazione e per nascita. A Parigi, dove persino lei prova per poche ore la vertigine delle attenzioni di un uomo, in una stanza diversa ma uguale a quella affacciata sull'Atlantico accade un fatto che potrebbe tagliare il cordone ombelicale che lega Marie e Sylvie.
Sarà il caso, a distanza di molti anni dalla loro separazione, con la guerra di mezzo, a riprendere il filo di un discorso lasciato in sospeso.
E sarà sempre un'iniziativa di Sylvie, ora ricca mantenuta e potenziale ricchissima ereditiera, a risvegliare nel cuore di Marie sentimenti da madre-serva. In ballo non c'è più un gruzzolo, ma una montagna di soldi. Anche se neppure per tutto l'oro del mondo Marie rinuncerebbe a pettinare, ogni sera prima di andare a letto, i capelli dell'altra.
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