Qualcosa è cambiato. Non è il titolo di un suo film ma qualcosa di più. Steven Spielberg non vuole più saperne della Cina. Doveva collaborare come consulente artistico alla cerimonia di apertura e di chiusura delle Olimpiadi invece ha chiuso e basta e senza tante cerimonie: «Il mio impegno finisce qui, la mia coscienza non mi consente di continuare come se niente fosse». Ha scritto mille volte al presidente Hu Jintao, gli ha chiesto di convincere Khartum a mettere fine alle violenze nel Darfur, 200.000 morti e due milioni di sfollati in quattro anni, visto che Pechino acquista i due terzi del petrolio sudanese e gli vende tutte le armi: «La colpa principale di questi crimini è del governo del Sudan ma la Cina dovrebbe fare di più per mettere fine alle sofferenze». Invece niente, nessuna risposta. Prima di quella di ieri, sotto forma di nota ufficiale del governo: «Quella del Darfur non è una questione interna nostra, nè causata da noi. Perciò è completamente irragionevole, irresponsabile e ingiusto da parte di certe organizzazioni e individui legare i due problemi come fossero uno solo». Fine delle trasmissioni.
Ma la verità è che la Cina adesso ha paura che il boicottaggio di Spielberg possa scatenare un effetto domino a 175 giorni dall’inaugurazione dei Giochi. E non a torto. Il principe Carlo ha già fatto sapere che, invitato o no, non assisterà a nessuna competizione olimpica. È amico del Dalai Lama, non c’è bisogno di spiegare perchè. E Chelsea Clinton, anche a nome di mamma e papà, nel corso di un dibattito con gli studenti di un’università dell’Ohio, ha applaudito la scelta di Spielberg spiegando che si tratta di «un messaggio incoraggiante per la lotta in difesa dei diritti umani». Una fronda che ha già coinvolto da tempo nove premi Nobel per la pace che hanno fatto cartello per il Darfur e centoventi deputati americani che hanno sollecitato Pechino a intervenire senza se e senza ma. L’aria di boicottaggio che tira intorno ai Giochi si sta facendo pesantina. Per questo Pechino cerca di correre ai ripari: «Collegare l’Olimpiade al conflitto in Darfur contraddice il principio universalmente riconosciuto della non politicizzazione dello sport e si contrappone allo spirito olimpico» va all’attacco il portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, Wang Baodong che poi se la prende direttamente con gli Usa: «Smettetela con questa mentalità da guerra fredda». E il Global Times, foglio direttamente gestito dal Partito comunista, si è premurato di far sapere che «la strumentalizzazione delle Olimpiadi da parte dell’Occidente ha provocato solo disgusto tra i cinesi». E se lo dice il giornale di partito.
Non tutti in Occidente comunque la pensano alla stessa maniera. Il governo britannico per esempio fa professione di realismo: «Il mondo sa da almeno sette anni che Pechino sarebbe stata la sede dei Giochi olimpici - ha detto al Times il ministro britannico per le Olimpiadi, Tessa Jowell - ci sono aspetti totalmente inaccettabile nella politica cinese, ma questo non ha impedito i Giochi fossero assegnati a Pechino». Morale: «Il boicottaggio è inutile e dannoso». Anche se Richard Vaughn, campione di badminton, e Shelley Rudman, medaglia olimpica di skeleton, sono usciti allo scoperto: «Non si possono ignorare i massacri, noi atleti dobbiamo fare qualcosa».
In ogni caso per dimostrare buona volontà la regia della cerimonia inaugurale è stata affidata al dissidente Zhang Yimou. «Lui non ci tradirà» sono convinti a Pechino. Più che una medaglia d’oro meriterebbero la Faccia di bronzo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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