Se ne è andato a 76 compiuti 7 giorni fa Richard Douglas Dick Fosbury, il mago di Foz che rivoluzionò il salto in alto, inventando una tecnica nuova per vincere la forza di gravità.
Dallo stile ventrale che aveva in Valeri Brumel il poeta, l'uomo che aveva fatto la storia battendo sei volte il primato del mondo, da 2.22 a 2.28, al gambero di Portland. Dal figlio di due geologi siberiani a questo ragazzo dell'Oregon che aveva portato l'allegria in pedana, una scorciatoia per il cielo che ha davvero rivoluzionato questa disciplina dell'atletica anche se i fondamentalisti, aiutati da fenomeni come il meraviglioso Volodia Jascenko, nato in Ucraina nel 1959, si opposero alla rivolta affidando al giovane campione che vedemmo vincere gli europei indoor a Milano, nell'arena di San Siro poi caduta sotto la neve, la bandiera della tradizione e lui, andando oltre i 2.33 del record mondiale, riuscì a scalzare dal primato Dwight Stones l'americano che aveva ereditato da Fosbury il volumetto sulla nuova tecnica andando oltre i 2 metri e 32, 8 centimetri in più del Mago nato per stupire.
Era il 1965 quando si presentò, avendo già superato i due metri a Bernie Wegner, l'allenatore all'università dell'Oregon che lo aveva arruolato diciottenne. Come tutti i santoni cercò di riportarlo al salto ventrale, ma dopo tre allenamenti, intelligentemente, gli lasciò costruire il suo castello, comprendendone il sogno. Fortuna per Dick, fortuna per tanti meno che per gli avversari che se lo trovarono davanti nell'aria rarefatta di Città del Messico alle Olimpiadi del 1968. Quella finale di salto in alto divenne speciale, fece davvero la storia e quando Dick il gambero superò l'asticella di schiena a 2.24, nuovo limite olimpico, tutti capirono che il salto non sarebbe stato più la stessa cosa come ci confessò Giacomo Crosa che in quella gara arrivò sesto, bel record personale con 2.14 per uno arruolato solo alla vigilia dei Giochi, ventralista convinto. Le immagini della notte diventarono la meraviglia per tantissimi ragazzini. Su tutti i campi di atletica gli allenatori facevano fatica a far rispettare la tradizione perché quello stile di salto sembrava togliere l'angoscia. Fra questi nuovi seguaci Sara Simeoni che con lo stile tradizionale aveva già dimostrato grande talento, una che sapeva guardare oltre e dopo aver combattuto con il suo mentore, il professor Bragagnolo, convinse tutti che era il momento di cambiare. Una scoperta fra le nuvole come dice la nostra campionessa oro olimpico e primatista del mondo, un viaggio nell'avventura che agli europei di Helsinki, nel 1971, la portò in pedana con scarpette da velocista: «Ero felice», dice Sara, «ma anche preoccupata. Con quelle scarpe era difficile stare in equilibrio nella curva della rincorsa, dolori dappertutto, ma ogni salto era una scoperta nuova, non sarei più tornata indietro. Valeva la pena rischiare, era bello volare così». Fosbury che non ebbe una carriera lunghissima, in pratica finì dopo il Messico, la gara dove saltò con scarpe di colore diverso («non per una richiesta del marketing - diceva scherzando - ma perché la destra con quel colore mi dava una spinta superiore verso l'asticella»). Ce lo spiegò alla sua maniera anche nel convegno di Gubbio intitolato proprio «oltre il Fosbury» dove Sara Simeoni lo abbracciò ringraziandolo a nome della sua generazione.
Quando se ne vanno quelli che hanno davvero lasciato un segno ti senti più fragile. Sembravano immortali. Noi ricorderemo sempre le notti in redazione alla Gazzetta quando la diversità di fuso orario consentiva ribattute con brevi in neretto che ci sembravano già poesie da goffi praticanti.
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