Addio a Pulici, il portiere diplomatico

Felice era punto di equilibrio tra i clan della Lazio scudetto. E diventò dirigente

Addio a Pulici, il portiere diplomatico

Ci voleva del coraggio per scegliere quel portiere del Novara. La Lazio, la Lazio di Tommaso Maestrelli destinata poi a vincere il primo scudetto della sua storia, gli aveva appena rifilato 5 gol in campionato. Fu coraggio oppure intuito straordinario, nessuno lo può dichiarare, sta di fatto che Felice Pulici divenne il portiere della squadra che aveva deciso di mettere da parte Bandoni e preparare la cavalcata tricolore con la famosa banda di Chinaglia e Wilson, Re Cecconi e Frustalupi. Quel coraggio fu premiato dalla fedeltà assoluta del portiere, brianzolo di anagrafe, arrivato da Novara a miracol mostrare: nelle sue cinque stagioni laziali mai una resa per infortunio o squalifica, 150 presenze di fila, una dietro l'altra, a solenne conferma della tenuta fisica ma anche nervosa. Pulici non fu soltanto di quella mitica Lazio uno strepitoso artefice ma all'interno dello spogliatoio folle e pericoloso come un deposito di esplosivo, fu anche l'elemento equilibratore, mai schierato con una delle due fazioni in armi (Chinaglia da una parte, Wilson dall'altra), semmai ambasciatore di dialogo e perciò fervente collaboratore di Tommaso Maestrelli che di quei leoni in gabbia era l'inimitabile domatore.

Non ci volle perciò un grande fiuto per capire che subito dopo, oltre i confini di una porta, la carriera di Felice Pulici sarebbe proseguita anche dietro una scrivania. Perché si laureò in giurisprudenza e cominciò a lavorare con la società che gli era entrata nel sangue, forse insieme all'Ascoli dove concluse la carriera dirigenziale con il ruolo di direttore generale. Già, perché il brianzolo Felice Pulici era capacissimo di affezionarsi alle persone e alle città che lo avevano accolto e adottato, oltre che alle squadre di calcio. Per la Lazio sacrificò anche un briciolo del proprio onore allorquando si assunse, sotto la presidenza Cragnotti, l'onere delle pratiche per il passaporto di Veron che gli costò una squalifica. Fu probabilmente quell'atto d'amore che convinse più tardi Claudio Lotito ad affidargli l'incarico di difensore del club bianco-azzurro nel processo Calciopoli. Ecco allora cosa è stato Felice Pulici per i laziali d'antan, in lutto da ieri, e per il calcio italiano, per chi ne ammirò le doti di portiere poco spettacolare ma molto concreto, essenziale nello stile e nell'eloquio, con un solo rimpianto probabilmente. Sempre escluso dal giro della Nazionale maggiore conteso tra Zoff e Albertosi, indossò la maglia azzurra nelle prime stagioni degli anni Settanta solo nell'under 23 all'epoca allenata da Bearzot, una vera fabbrica di futuri talenti, capaci di raggiungere e tagliare traguardi speciali.

Da tempo malato, Felice era uscito dai radar del calcio e dell'informazione in silenzio, rispettando i canoni del suo temperamento, riservato e schivo, come sanno essere solo certi esponenti di una generazione

cresciuta in tempi difficili ma capace di esaltarsi proprio nelle curve più insidiose della propria esistenza. Non è riuscito a superare l'ultima perché anche uno come lui, alla fine, ha dovuto arrendersi alla malattia carogna.

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