Ha scelto la notte per chiudere definitivamente la sua esistenza. Ma aveva finito di vivere quella maledetta mattina di gennaio del Duemilaotto. Faceva freddo e Ivan Ruggeri da qualche giorno si sentiva affaticato, lo tormentava un tremendo mal di testa. Il suo medico curante aveva suggerito un controllo specialistico, la situazione non era chiara. Ruggeri aveva lasciato la sede dell'Atalanta a Zingonia per raggiungere, cento metri più in là, l'ospedale San Matteo e sottoporsi alla visita. Improvvisamente sentì una vampata di caldo, la testa, gli occhi, il resto del corpo, vennero avvolti dalla nebbia, fu il silenzio, cadde come corpo morto cade, svenuto, fu l'inizio di una disperata ricerca di luce. Trasportato a Bergamo venne operato di urgenza ma la sua storia era ormai conclusa.
Daniela, Alessandra, Francesco, la moglie, i figli, lo hanno aspettato per cinque anni, pregando, sperando, sognando, soffrendo ma da sempre sapendo che tutto intorno era cambiato, nella loro vita quotidiana, nel corpo di quell'uomo, padre e marito, così forte e duro e poi, di colpo, inesorabilmente, fragile, sgonfio in un corpo senza accenni, non percepiva nemmeno il vento delle Orobie, mentre, seduto su una carrozzina, veniva spinto da Francesco, da Daniela, tra i prati verdi attorno alla sua dimora ormai vuota. Raccontano che un giorno andò a trovarlo Glenn Stromberg, lo svedese che mai ha abbandonato Bergamo. Ivan Ruggeri era immerso nella vasca da bagno, seguito continuamente dalla badante e dalla moglie. Stromberg cercò di far sentire la propria presenza, Daniela aggiunse la propria voce: «Ivan, c'è Glenn, è qui per te». Raccontano, dicevo, che una lacrima prese a bagnare gli occhi, lentamente, fermandosi sul viso del presidente. Fu l'unica straziante reazione in cinque anni. Non so se tutto questo sia realmente accaduto ma so che la "speranza disperata" porta spesso a immaginare ciò che si desidera.
So di sicuro che Ivan Ruggeri è stato l'Atalanta, per quattordici anni. Si è divertito con il football dopo aver pedalato in bici, passione giovanile, raccontando di avere ottenuto un quarto posto al giro delle Asturie, all'insaputa dei più, e aggiungendo di avere sfidato mille volte Gianni Motta e di aver perso mille e una. Era diventato imprenditore di prima nel settore delle materie plastiche, sembrava un cumènda con quel vocione che usciva da una testa grossa, i capelli nerissimi, l'anello con il brillante, portato al dito, le cravatte di seta, la buona tavola, qualche occhiata furbastra alle donne belle di Bergamo che ronzavano attorno ai suoi ragazzi. Ivan Ruggeri per il suo tempo è stato un uomo solo al comando. Gli ultras non lo amavano, il Bocia, lo Svizzero, il Baffo guidavano la banda che lo contestava, lo fischiava, lo minacciava. Lui aveva capito, tra i pochi, che non si poteva scendere a patti, la Dea, l'Atalanta teneva i conti a posto, Previtali era il braccio destro magistrale, il settore giovanile era una miniera di pepite d'oro, Favini e Bonifaci continuavano a scoprire gemme da ogni dove, Ruggeri respingeva gli assalti dei procuratori e dei dirigenti che volevano depredare la banca atalantina con quattro soldi in cambio dei campioni.
L'elenco è folto, cognomi illustri, molta roba fatta in casa, molta rivalutata nel presepe bergamasco, una cuccia nella quale molti tornano anche di nascosto. Da alcuni fu tradito con il primo caso di scommesse, nella partita con la Pistoiese, furono giorni aspri tra il presidente e i suoi. Ruggeri non era un uomo di comunicazione e di pubbliche relazioni ma sapeva dire e fare quello che fosse necessario per la causa comune, sapeva scegliere i collaboratori fidandosi anche troppo di loro. Bergamo lo ha amato e odiato.
Ieri il calcio ha fatto finta di ricordarlo. La Lega di serie B si è dimenticata di fare osservare il minuto di silenzio prima delle partite. Inutile chiedere lacrime a chi ha memoria soltanto degli affari.
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