Cristiano Ronaldo è un'ala destra? Anche. Cristiano Ronaldo è un'ala sinistra? Pure. Cristiano Ronaldo è un centravanti? Quando vuole. Cristiano Ronaldo è un difensore? A volte. Cristiano Ronaldo segna di testa? Sì. Segna di destro? Certamente. E i gol di sinistro? Se gli capita.
Che cosa volete di più da questo uomo ragazzo e da questo ragazzo uomo bellissimo e antipaticissimo, ricchissimo e fortissimo? Nulla di più di quello che ha saputo fare da quando è incominciata la sua storia nel borgo di Santo Antonio, l'isola è Madeira, mille chilometri oltre il Portogallo, là dove l'Europa non ha più voce e molte malinconie del suo destino, avvolte nel fado. Lisbona, Manchester, Madrid, terre di esplorazione e di conquista, di studio e maturazione, di sofferenza e trionfo. Sempre con la stessa determinazione, la stessa voglia di diventare il numero uno, di essere il re della sua isola, come sembra, anzi è, per chi visita il suo museo a Funchal. Numero uno e non special one, come Josè Mourinho il cui ego non permette supplementari e nemmeno rigori. Numero uno ma non speciale, primo e basta.
Lo disse nello stanzone dell'Old Trafford a Edwin Van der Saar portiere olandese dello United, lo volle ripetere a Gary Neville che era l'anima e il cervello di quella fantastica squadra nel teatro dei sogni di Manchester. Cristiano sotto il cielo d'Inghilterra aveva la faccia da bambino stupito, i capelli vaporosi, non ancora lucidi di brillantina, prima di lui Best e Cantona, Robson e Beckham avevano indossato la maglia con il numero fatidico, il 7: l'eredità, dunque, era pesantissima. Non particolarmente per il baby face di Madeira. Il popolo dello United incominciò a capire di trovarsi di fronte a un fenomeno, lo aveva intuito in una amichevole estiva sir Alex Ferguson e il suo assistente, Queiroz, aveva usato poche parole per convincere il compatriota ad abbandonare la trappola della saudade. Il resto lo avevano fatto le sterline, come sarebbe accaduto con i novantaquattro milioni versati da Florentino Perez per portarlo nel paese dei balocchi, il Real Madrid che è davvero la Disneyland per qualunque calciatore. Uno, due, tre palloni d'oro.
Sembra tutto così veloce e feroce, come è il football di Cristiano, ma, al tempo stesso, armonioso, elegante, provocatorio, indisponente, prezioso, vincente. Carlo Ancelotti mi ha raccontato un aneddoto recente che può servire a spiegare quella che chiamo la "cilindrata" di un campione, nel caso specifico un fuoriclasse nel senso etimologico, fuori da ogni classifica. Dunque, dopo la partita di champions league vinta 3 a 0, con un gol di Ronaldo, ad Anfield sul Liverpool (mai il Real aveva vinto a Liverpool, mai Cristiano aveva segnato ad Anfield), rientrato con la squadra alle tre di notte a Madrid, al centro sportivo del Real, Cristiano non è fuggito verso chissà dove per smaltire fatiche e tensioni. Ha preso la porta della palestra, si è spogliato e si è infilato nella vasca per una seduta di crioterapia di venti minuti.
Cristiano Ronaldo, uno che potrebbe vivere di rendita, aspettare il pallone, fumando un Montecristo numero 1, bevendo un bicchiere di Petrus, giocarsela secondo voglie e piacere, arrivare un minuto più tardi all'allenamento e svignarsela un minuto prima degli altri. No, Cristiano non ha nulla di tutto quello che, invece, riguarda altri sodali suoi, alcuni illustri almeno nel conto corrente e nella fama e Jorge Mendes, il suo procuratore, è stato decisivo in questo, per cura, tutela, insegnamenti. Sempre Ancelotti ribadisce che nella sua carriera non ha mai incontrato e allenato un calciatore con un senso professionale come quello del portoghese, quasi maniacale, puntiglioso, perfezionista del lavoro, della fatica, dello sforzo.
Perché il football tollera la finta ma non ammette la menzogna, perché il grande football esige grandi attori ma rifiuta i figuranti.Cristiano Ronaldo ha vinto il suo terzo premio d'oro battendo un portiere. Come gli accade da quando gioca a pallone. «Ora voglio il quarto, come Messi». La partita continua.
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