Da Armstrong a Pereiro: bancarotta Tour

Cristiano Gatti

Un tizio che si chiama Oscar Pereiro Sio sta girando in bicicletta la Francia vestito di giallo. Pare, si dice, risulterebbe, che sia al momento il numero uno mondiale dei ciclisti. Così raccontano i francesi, questi teneri, amabili, patetici francesi che continuano cocciutamente a considerare «la più grande» qualsiasi cosa avvenga o si produca dentro i propri confini. Di tutti i superlativi che questa fiera popolazione è riuscita a sfornare nel corso dei secoli, uno dei migliori risulta sicuramente l’ultimo, riservato alla manifestazione transalpina più gloriosa e più solenne: «È un Tour bellissimo: perché pulito, perché combattuto». E ti pareva che loro non avessero l’unica corsa bella, pulita, combattuta. Pazienza se soltanto un anno fa il tizio che girava la Francia vestito di giallo si chiamava Armstrong, incalzato da un certo Basso e da un certo Ullrich. Non notano la differenza. Se la notano, non hanno dubbi: meglio adesso. Con un certo Pereiro che affronta da leader le ultime tappe sulle Alpi. E con un vincitore - celebrato domenica prossima sui Campi Elisi - che si chiamerà al massimo Landis, o Menchov, o Evans. Tutta brava gente, niente da dire: ma bisogna essere francesi per non notare la differenza. Eppure a loro va benissimo così: è il Tour che fa i campioni - si compiacciono di dire - non i campioni che fanno il Tour.
Parlandone da qui, fuori dall’ombelico del mondo, i pochi che guardano il Tour non mostrano le stesse espressioni di entusiasmo. Visto dall’Italia o dalla Spagna, dalla Germania o dalla Cina, è un Tour terrificante. Mai così brutto, triste, anonimo negli ultimi decenni. Forse, mai in assoluto. Persino loro, i corridori che in qualche modo cercano di onorarlo, cominciano a coltivare qualche dubbio: tagliando il traguardo in un gruppetto di ritardatari, l’italiano Mazzoleni viene colto dalle telecamere mentre pone al connazionale Tiralongo questa domanda molto umana: «Ha vinto Fedrigo. Chi è ’sto Fedrigo»?
Bisogna essere molto sinceri, ai limiti della brutalità: non servono vista d’aquila e astuzia da faina per giungere all’unica conclusione possibile: il Tour 2006 è fallimentare. Ascolti bassi ovunque, risultati imbarazzanti, protagonisti mediocri. Certo, consegnando questa spietata radiografia, si corre il rischio di cadere in un pericoloso equivoco: cioè in qualche modo rimpiangere una corsa più spettacolare e più vipposa, ma magari meno pulita. Meglio essere subito chiari: nessuno in nome dello spettacolo può pretendere di tollerare chi bara. Nel caso specifico: se i campionissini di questo Tour sono fuori perché sporchi, nessun rimpianto. Ma prima è utile rispondere a questa domanda: siamo sicuri che gli sporchi siano tutti fuori e che quelli dentro siano tutti puliti?
Purtroppo, nessuno può essere sicuro di questo. I respinti della vigilia sono già condannati prima ancora di potersi difendere. Senza voler fare della bassa demagogia, sarebbe come se la Federcalcio italiana avesse deciso di lasciare Lippi, Buffon e Cannavaro fuori dal Mondiale: così, a titolo precauzionale. Questo invece ha fatto il ciclismo: sulla base degli indizi segnalati dalla polizia spagnola, ha subito escluso i chiacchierati. Così vuole un codice etico firmato dalle squadre in piena emergenza doping. Un’idea estrema, ma per niente bislacca. Bislacchi, caso mai, sono gli effetti: perché nessuno può garantire che senza i chiacchierati abbiamo una corsa pulita. E come mai? A dirlo sono i controlli antidoping: tutti i corridori iscritti al Tour 2006, chiacchierati compresi, risultavano immacolati ai controlli preventivi (l’autoemotrasfusione non è rintracciabile). Chi ti dice allora che tra i rimasti non ci sia qualcuno ugualmente baro, ma soltanto più fortunato perché non si serve dal famoso dottor Fuentes?
Diciamolo: il discorso è molto antipatico. Perché lascia troppo spazio ai dubbi e ai veleni. Ma nelle situazioni estreme bisogna pur andare giù duri. Guarda caso, lo stesso dottor Fuentes ha dichiarato che se facesse tutti i nomi della sua spettabile ditta «il Tour arriverebbe a Parigi senza ciclisti». Battuta magari ingigantita quantitativamente, ma certo significativa. Di più. Nelle ultime ore, il presidente dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada) ha tranquillamente riconosciuto che i controlli di oggigiorno non sono in grado di smascherare con certezza chi gioca sporco.
E allora? E allora, forse è il caso di ripensare questa spietata legge del taglione, introdotta con il codice etico. Bisognerebbe ripristinare il sacrosanto principio che si butta fuori dal gruppo solo chi ha seri elementi a carico. Stante la grave situazione, non è il caso di aspettare una condanna: diciamo che potrebbe bastare un rinvio a giudizio. In attesa del giudizio, il corridore è sospeso. Non come adesso, che si resta fuori per una citazione via telefono.
Se così fosse, questo Tour 2006 ci proporrebbe il solito spettacolo, coi soliti campioni. Poi, con calma, le singole federazioni potrebbero inchiodarli alla sbarra ed eventualmente arrivare alla pesante punizione.

Certo, bisogna riconoscerlo: sarebbe ancora un grande Tour carico di veleni e dicerie. Come quelli di Armstrong, per non fare nomi. Che cosa sia peggio, quelli di allora o questo di oggi, ciascuno può deciderlo sulla poltrona di casa, davanti alla tivù. Allora accesa, oggi spenta.

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