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C'erano una volta i veri portabandiera

Equilibrio di genere, meno identità nazionale. Ma alla Ue negato il vessillo nella sfilata

C'erano una volta i veri portabandiera

Nulla di più corretto, eccessivamente corretto. Nella forma, più che nella sostanza. Il Giappone è questo e i Giochi si allineano al pensiero del politicamente corretto (per la cronaca, ricordo che il termine venne creato ai tempi della rivoluzione russa del 17, entrò nel vocabolario marxista-leninista e descriveva l'adesione alle politiche e ai principi del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, dunque un chiaro esempio di dialettica democratica, per i fedeli al regime). Ritorno tra i contemporanei per spiegare come, un secolo dopo, i portabandiera non rappresentino soltanto il Paese ma la loro presenza oltrepassi il simbolo patriottico, la fedeltà. La nostra Egonu raggruma tutte le esigenze contemporanee sociopolitiche, anche ideologiche, la Gran Bretagna ha presentato Mohamed Sbihi, vogatore di eccellenza, primo musulmano cui è stato concesso l'onore di tenere alta la bandiera, lui, proveniente da una minoranza etnica, ha deciso di registrarsi con il nome e cognome completo, Mohammed Karim Sbihi, superando l'anglicizzato Moe (appunto da Mohammed) con il quale tutti lo conoscevano e presentavano. Le squadre tutte hanno cercato un equilibrio di genere per rispondere a una analoga realtà sociale e per non graffiare la facciata ufficiale dell'evento. Così hanno fatto i due portabandiera, un'atleta e un atleta, dell'Iran islamico, una favola che non si poteva immaginare e che qualche mente opaca fatica ad accettare. Per ribadire, anche Iraq e Qatar non hanno fatto distinzione di sesso. Prima di tutto, pulirsi la coscienza: a Muhammad Yunus, uomo di finanza, banchiere, economista e leader sociale del Bangladesh, dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace, è stato assegnato l'alloro olimpico per il suo impegno, Yunus è apparso con un video di ringraziamento, a distanza.

La festa nel silenzio è stata una sofferenza per le ragazze e i ragazzi, ballerini, artisti e tutto il popolo che ha lavorato alla cerimonia di apertura nel tulle tossico di questo maledetto virus che ha congelato l'entusiasmo del pubblico tenuto lontano dall'evento, seggiole vuote, poltrone occupate, mentre gli ultimi tam tam riportavano le cifre dei contagi, mai così alti da sei mesi. Mai l'assenza è stata così sentita sulla pelle di chi assiste allo spettacolo dello sport e lo vive e lo pratica e lo soffre. Dinanzi ai due imperatori, Sua Maestà imperiale, il giapponese Naruhito e Sua eccellenza del Cio, il tedesco Bach, la sfilata dei Giochi, tra bandiere e telefonini, è andata in scena come se nulla fosse accaduto e ancora accada in questo mondo sbandato e sbiadito, la sfilata mai è un corteo, mai è una manifestazione, è, invece, la passeggiata festosa e festante di un popolo, quello dello sport, che convive anche con la corruzione, gli inganni e i compromessi ma cerca infine di scappare da questi e di smascherare il furfante illusionista. Poi spunta la notizia che sputa il gas velenoso delle fazioni politiche, il judoka algerino si è ritirato dai Giochi per non affrontare l'israeliano, la questione palestinese è ben più importante di una sfida sportiva, il gesto supera i gesti. O forse perché già sentiva l'odore della sconfitta o perché non ha capito che sarebbe stata l'occasione per un confronto leale, questo sul tatami, quindi conservando la propria idea; il suo ritiro, invece, è una sconfitta della libertà, è la resa alla logica che può prescindere dalla verità politica e sociale, la fuga al posto dell'incontro. Per chiudere il cerchio, anzi per aggiungere il cerchio dell'ipocrisia, tra mille bandiere e bandierine, è stato severamente vietato l'accesso e lo sventolio del drappo con dodici stelle dorate, dunque la bandiera di una comunità continentale, l'Unione Europea. Le figurine del Cio, in parata massima nella tribuna, hanno spiegato che si sarebbe potuto creare un fastidioso precedente. Giochi? Bah.

Anzi, Bach.

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