DIVORZIO SVENTATO Il trionfo di Lisbona ha evitato il possibile addio alla panchina Real

Ancelotti decimo, re di Spagna e di Madrid, non l'ha mai nascosto. «Preferisco la coppa» fu il titolo didascalico del suo libro nel quale raccontò le prime emozioni vissute tra Manchester, Istanbul e Atene quando gli dei gli consentirono di riparare a una maledizione tipo Atletico, una sfida dominata in 45 minuti (3 a 0) e poi ribaltata dalla rimonta di Benitez e dalla sciagurata roulette dei rigori. Con la decima tra le mani possenti, cinque i trionfi personali (2 da calciatore made in Sacchi, 3 da allenatore di cui 2 made in Milan), Carletto nostro, gagliardo e tosto, ha parlato con la sincerità che solo i galantuomini di un tempo sapevano maneggiare con cura. «Sono stato fortunato ma me la sono meritata alla fine» la sua sintesi perfetta, aderente in modo strepitoso alla realtà di una finale considerata persa fino all'ultimo assalto e poi considerata vinta, stravinta, appena ha imboccato lo stretto sentiero dei supplementari. Meglio di tanti titoli trionfalistici postumi e anche un po' fasulli che hanno finito col cestinare giudizi all'arsenico raccolti nei primi mesi di lavoro al Santiago Bernabeu. «Adesso mi sento più comodo in panchina» è stata la sua chiosa trasparente, consapevole che un eventuale insuccesso, aggiunto al tonfo nella Liga, avrebbe comportato un divorzio traumatico dal Real e dal suo futuro. Galliani era pronto ad offrirgli un riparo a Milanello.
«Quando sono arrivato il primo giorno a Madrid, il presidente mi ha portato nel salone delle coppe e dinanzi alle nove Champions mi ha detto: Carlo, ha capito che cosa manca? Adesso gliel'ho portata», la sua più grande soddisfazione. Lo hanno ribattezzato persino "Tranquillotti" perché non avevano capito di cosa sarebbe stato capace quell'uomo con quei metodi da compagnone, abile però nel farsi amare in modo unico dal gruppo. Più di Mourinho che aveva diviso l'aficion e scatenato l'ira della prensa spagnola. La dimostrazione plastica è avvenuta nel cuore della notte di Lisbona quando un drappello di blancos, compresi Marcelo l'escluso, e Pepe rimasto in panchina per infortunio, sono piombati in sala stampa e con lui hanno cominciato a cantare "come no te voy a querce", il canto di battaglia di tutto il madridismo riecheggiato al mattino nella piazza della capitale dedicata al trionfi del Real.
«Non è facile allenare il Real Madrid, dove ci sono un presidente e un pubblico molto esigenti, e giocatori considerati campioni ma non funzionali a un progetto di squadra» la spiegazione di Arrigo Sacchi che di Carletto è stato uno dei maestri («mi hai superato» il complimento in tv), insieme con quel Liedholm da cui Ancelotti ha copiato l'amore per la battuta. Il Real aveva l'ossessione della decima, e lui, Carletto, l'ha esorcizzata istruendo i suoi a occuparsi d'altro. «Fino a dicembre ho questionato con Sergio Ramos, da gennaio, dopo le vacanze, è diventato il miglior difensore al mondo, anzi il miglior centravanti visto che ha fatto gol uno più prezioso dell'altro» l'altra tessera del mosaico costruito con pazienza e fede.

«Abbiamo sbagliato solo una partita, col Borussia, la spinta è arrivata quando abbiamo demolito il Bayern» la sintesi di una Champions con la maiuscola, aggiunta alla coppa del Re, vinta come nel 2003, col Milan di Rivaldo e Rui Costa, Inzaghi e Shevchenko, Dida e Seedorf, Nesta e Gattuso. Gli hanno subito assegnato un premio, il primo forse di una lunga serie, intitolato a Bearzot, con assegno da 5mila euro, subito girato a fondazione Borgonovo. Anche in questo Carletto nostro è irraggiungibile.

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