«A Parigi ho portato per la prima volta mio figlio Stefan: siamo saliti sulla Torre Eiffel ma ho dovuto dirgli che i cannocchiali non funzionavano. Non avevo un euro in tasca...». Diciamo che non è che a Novak Djokovic manchino gli spiccioli, ma il suo tennis da un anno a questa parte è un po' così: in pezzi da piccolo taglio. Tanto che ieri, dopo essere stato asfaltato nei quarti del Roland Garros da Dominic Thiem (7-6, 6-3, 6-0) ed essere uscito dai primi due posti del ranking dopo 6 anni, ha confessato: «Prendermi una pausa? Sto pensando a cosa fare e nessuna opzione è esclusa...» («Ma a Wimbledon ci sarò», ha aggiunto alla stampa serba). Da Parigi a Parigi insomma è cambiato tutto: un anno fa il serbo conquistava l'unico Slam mancante della sua carriera da Numero Uno e sembrava pronto per dominare il 2016, dodici mesi dopo esce dal campo a testa china e con troppe domande in testa. Avendo nel frattempo cambiato tutto il suo team e giocato la carta Agassi come coach temporaneo. Inutilmente. Per carità, perdere con Thiem ci sta: è una stella della Next Gen, a Roma ha battuto anche Nadal (che viaggia spedito in semifinale, grazie al ritiro nel secondo set di Carreño Busta), ha meritato il successo, come ha detto lo stesso Novak.
Ma è il modo, l'atteggiamento, lo sguardo, la resa nel terzo set, che rende l'ex Invincibile vulnerabile davanti a se stesso. E il problema non è sapere quando Djokovic tornerà il migliore del mondo, ma sentirlo dire «è difficile dire cosa mi manca in questo momento». Soprattutto se lui stesso scopre che di troppo c'è invece il tennis.
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