È il processo di santificazione a portare lo sgarbo più grande alla memoria di Ayrton Senna da Silva. Quella voglia di esaltare che prende tutti come un raptus, come cucchiaiate di puro miele a cambiare il vero gusto dei ricordi. La santificazione figlia sempre di una morte capace di amplificare e distorcere. In grado di rendere Gilles enormemente più grande del figlio Jacques Villeneuve che ha vinto tutto. La santificazione che distoglie troppo spesso lo sguardo dal vero Marco Pantani e non dà tregua alla memoria del vero Simoncelli che era un ottimo motociclista e uno splendido ragazzo ma non per questo l'erede di Valentino Rossi. Da quel giorno di maggio del '94 la santificazione ci regala periodicamente, e purtroppo ogni dieci anni di più, un Ayrton mistificato e offuscato e più grande del grande che già era e più buono e più tutto. L'unica vera verità è che dopo di lui la F1 non è stata più la stessa. Ma nel senso che è diventata più sicura. La morte, il giorno prima, del povero Ratzenberger non avrebbe avuto impatto. Per svoltare sulla sicurezza serviva il sacrificio del più forte.
Senna vivo e senza santificazione sarebbe oggi come un Maradona: immenso ma con appresso i suoi bravi difetti mostrati in carriera. Sarebbe come Pelé: cioè il più grande di tutti ma col dubbio che lo sia stato per davvero. Ayrton vivo avrebbe convissuto costantemente equiparato ad Alain Prost nemico giurato a cui però poche ore prima di morire, nel warm up di Imola, via radio e in diretta con la tv francese, aveva detto «mi manchi Alain». Ayrton vivo verrebbe ricordato come Schumi che l'aveva fatto incazzare non poco nei due anni in cui si erano incrociati perché simile a lui nella cattiveria agonistica e nella preparazione maniacale. Fantasia, sorpassi, velocità e improvvisi black out mentali il primo; ritmo, velocità e improvvisi blackout mentali il secondo. Le mani addosso un giorno mise il primo al secondo, odorandolo troppo simile a lui. Schumi che stava vincendo tutto in quell'avvio del tragico 1994, persino profanando casa sua, San Paolo. Schumi che gli stava dietro pochi metri quando a Imola, ore 14 e 17, tutto finì.
Per quanto sgradevole, impopolare, c'è solo un modo per provare a ricordare Ayrton vero e nudo e per colui che veramente è stato. Bisogna togliergli di dosso il velo santificato e santificante. Gerhard Berger, ottimo pilota e fuoriclasse del vivere, che dell'epoca in cui fu compagno del brasiliano in McLaren racconta meraviglie e «la grande amicizia che ci legava», in omaggio alla suddetta grande amicizia, a Suzuka 1991, ricevette in dono l'umiliazione in mondovisione del compagno che alzava platealmente il piede all'ultimo momento per farlo passare e cedergli la vittoria dopo averlo annientato un anno intero. «Toh!, guarda che regalo che ti faccio...» il messaggio che passò. La santificazione narra dell'uomo generoso, dell'uomo credente fino all'ossessione, culto evangelico, «ho vinto perché Dio era con me...» le sue frasi. Ma quel gesto era e resterà per sempre nella terra di nessuno: non giustificato dalla legge della pista e non contemplato dalle regole dell'amicizia. Era anche questo Senna. Come la rivalità con Prost. Si parla sempre dello sgarbo del francese al compagno in McLaren a Suzuka '89, Senna che attacca, Alain che non dà strada, i due si toccano, fermi entrambi è campione Prost, l'altro riparte spinto dai commissari, vince, anzi no, squalificato per il reclamo del francese da commissari di una federazione presieduta dal francese Balestre. Complotto urlerà Ayrton, o si scusa o niente corse l'anno dopo, urlerà la Fia. Si scuserà a modo suo. E un anno esatto dopo si vendicherà altrettanto a modo suo. Buttando fuori alla prima curva Prost sulla Ferrari. A parti invertite. Fermi entrambi, il campione sarà Senna. Cose belle? Forse. Un anno dopo avrebbe rivelato di averlo fatto apposta. Per cui riflettiamoci: incidente voluto, a oltre 200 all'ora, potevano ammazzarsi, farsi male dei commissari, il pubblico. Ma si diceva: si parla sempre di questo e non del patto di Imola '89, chi è davanti alla prima curva davanti resta e che lui ignorò. Da lì Prost gliela giurò.
Per capire il vero Ayrton forse bisognerebbe fare un'altra cosa politicamente scorretta: calarlo nella F1 di oggi. In fondo tutto cambia ma non così tanto come ci piace raccontare. Quando Senna morì comandava Ecclestone che comanda oggi; e c'era un francese a capo della Fia come oggi con Todt. C'erano la Williams, la Renault, la McLaren e c'era la Ferrari a cui Senna mai arrivò così vicino come nel 1991, quando al vertice del team stava Cesare Fiorio, contratto firmato in tasca, ma una lotta di potere sull'asse Torino-Maranello-Prost (all'epoca in Rosso) bloccò tutto. Inciso doveroso quello maranelliano. Perché i se e i ma contano niente però se Ayrton fosse montato sul Cavallino non l'avrebbe trovato scomodo e stretto come la Williams disegnata dal giovane e già estremo Adrian Newey e non avrebbe chiesto di limare il piantone dello sterzo per manovrare più comodo (questo il risultato dell'inchiesta che condannò il socio di sir Frank, Patrick Head, per omicidio colposo, reato prescritto, ndr). E il volante non gli sarebbe rimasto in mano alla curva del Tamburello quel fottuto primo maggio. E, dunque, che Ayrton sarebbe oggi quello in pista? Si potrebbe partire da una cruda constatazione: in questa F1 sarebbe innanzitutto un pilota fermo. Non nel senso di lento, bensì di appiedato. Imprigionato. Punito ai box, a casa. Fermo a scontare la maxi squalifica che certamente si sarebbe preso per la follia di Suzuka.
E in ultimo, sempre di eresia in eresia per raccontare senza santificazioni a chi all'epoca non c'era che pilota fosse il vero Senna, a chi potrebbe assomigliare con i suoi tre titoli, le 41 vittorie, le 65 pole? In pista, per guida, stile, anche per certe improvvise pazzie, forse Hamilton. Fuori pista Alonso. Manovratore come lui. Col sorriso triste come lui. Due grandi piloti per ricordarne uno. Anche in questo sta la grandezza di Ayrton.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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