Leggi il settimanale

Ma fu Luciano ad allungargli la vita...

Era fine 2005 e a 29 anni lo inventò attaccante: meno fatica e più gol

Federico Malerba

Nella lunghissima carriera di Francesco Totti c'è stata una notte che ne ha cambiato il corso dividendola a metà. Era il 18 dicembre del 2005, si giocava un Sampdoria-Roma e da pochi mesi il suo allenatore era Spalletti, lo stesso che oggi viene accusato (dalla maggior parte dei tifosi romanisti, dalla moglie Ilary e probabilmente dallo stesso Francesco) di non portare sufficiente rispetto al mito giallorosso. Quella volta il tecnico toscano si ritrovò senza attaccanti e fu costretto a inventarsi il 4-2-3-1 che da soluzione d'emergenza divenne ben presto il suo marchio di fabbrica, consentendogli di raddrizzare una stagione iniziata male e poi nobilitata da una striscia di 11 vittorie consecutive che ancora è record nella storia del club.

Fino a quel momento il «Pupone», che aveva già 29 anni e tre mesi, era stato schierato come trequartista (da Mazzone e dal primo Capello), come esterno sinistro (da Zeman) o come faro di un attacco a due punte (dall'ultimo Capello che amava affidarsi al tandem fantasia Totti-Cassano). Spalletti fu il primo a intuire che quel numero 10 non aveva solo classe immensa e un'incredibile visione di gioco, ma anche freddezza e precisione nel tiro da fare invidia alla maggior parte dei centravanti di ruolo. E quindi lo fece diventare il terminale offensivo di una Roma cortissima: un Hidegkuti del XXI secolo capace di arretrare per lanciare gli esterni ma soprattutto di finalizzare l'azione.

Rileggendo i numeri col senno di poi si può dire che l'intuizione di Spalletti è stata geniale. Fino a quel giorno, in Serie A, Totti aveva giocato 324 partite segnando 116 gol; da lì in avanti ne ha messe insieme altre 281 in cui è andato a bersaglio 134 volte. Si passa da una media di 0.35 reti a partita a una di 0.47, il che dice moltissimo eppure non dice tutto. Perché avanzando il suo raggio d'azione Francesco ha potuto distillare il suo talento senza gravare troppo sul corpo ultratrentenne e martoriato da due gravi infortuni, uno nel 2006 e l'altro nel 2008.

Se oggi siamo a celebrarlo come icona del calcio italiano è merito soprattutto della sua longevità agonistica, dell'ultimo decennio in cui i suoi termini di paragone sono passati da Mancini, Baggio e Del Piero a Meazza, Piola e Rivera.

Volendo essere puntigliosi si può anche dire che nell'ultima parte della sua straordinaria parabola si è giovato del declino tecnico di una Serie A in cui ora, a 40 anni, fa la differenza più di quando ne aveva 25. Ma se sarà ricordato come uno degli immortali lo deve proprio al vituperato Spalletti.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica