Il fuoriclasse inglese, a 33 anni, annuncia il ritiroLa storia

Michael Owen, tutta una carriera in quella gamba destra, piede, ginocchio, coscia. Dal gol all'Argentina del Mondiale 1998, quando un David Beckham ancora versione Spice, biondo e giovane e arrogante lo lancia a centrocampo verso la porta, lui supera Chamot e irride Ayala e appoggia all'incrocio dei pali la palla vincente più famosa della storia recente dell'Inghilterra. Dal primo infortunio in maglia Liverpool del 12 aprile 1999, quando ancora una volta lanciato a rete, qualcosa nel ginocchio si spezza e la sua corsa esplosiva implode, e la stagione finisce lì, con un corteo di presentimenti nerissimi, a vederla con il senno di poi. Quando torna in patria con la maglia del Newcastle, per riscattare quella stagione in chiaroscuro a Madrid, e dopo appena cinque mesi, il 31 dicembre 2005, si rompe anche un osso del piede (destro, sempre). Quando nel 2006, ancora al Mondiale questa volta tedesco, in una partita contro la Svezia la gamba si piega sul lato, è il crociato che si spezza, lui si trascina fuori dal campo, a gattoni, per non interrompere la partita, perderà dieci mesi, un'intera stagione.
Si ritirerà a fine stagione, l'ha annunciato dicendo, letteralmente, che è ora di far calare il sipario sulla sua carriera. Michael Owen chiude con il calcio a 33 anni, scrive sul suo sito che lo fa «con immenso orgoglio», e ha ragione. Perché sì, il 99% degli articoli celebreranno il talento dell'ex Golden Boy con un agrodolce senso di compassione e pietà per uno che «se non avesse avuto tutti quei guai» probabilmente «sarebbe stato un grande». Lui rivendica invece l'orgoglio. Dice: provate a invertire la prospettiva, a girare la medaglia. Fa bene. Michael Owen è diventato un grande, e l'ha fatto nonostante i suoi infortuni. La sua carriera è ben altro: è innanzitutto quella magia di St. Etienne il 30 giugno 1998, è la finale di FA Cup del 2001, una vittoria 2-1 del Liverpool contro l'Arsenal con una doppietta in 7', ricordata emblematicamente come la «Michael Owen Cup final», è la tripletta nella vittoria, a settembre dello stesso anno, per 5 a 1 contro la Germania, è il Pallone d'Oro a 21 anni (e ancora c'è qualcuno a dire: non se lo meritava), è il goal del 4-3, nel 2009, a 30 anni e quasi altrettanti stop, per il Manchester United nel derby cittadino, minuto 96.
Stranamente non ha troppi amici, Owen. Da un lato ci sono i tifosi delusi, gli ex Liverpool traditi (e dire che da bambino tifava Everton, che cliché) che non gli hanno mai risparmiato niente, e i semplici tifosi del calcio, che si aspettavano una carriera lunga e serena e non avevano fatto i conti con la vita che non è un romanzo rosa. Dall'altro ci sono quelli che lo accusano di essere uno scarto da troppi anni, di guadagnare troppo, come se fosse lui a pretendere soldi e fama, e non le sue squadre a volerlo in rosa. E quando la scorsa estate, 32enne, 11 anni dopo le foto di rito con il Pallone d'Oro a Zurigo, Owen si ritrovò disoccupato, disse che se non avesse trovato una squadra di primo livello si sarebbe ritirato. Come a dire: nessun problema, grazie, ma niente Qatar o Cina o paradisi esotici ricoperti d'oro per me. Intanto, durante i periodi lontano dai campi, coltivava altre passioni, i cavalli, la sua scuderia. Ma forse nessuno ha mai capito davvero il Michael Owen post-Liverpool: il Real nel 2004/05 cambia tre allenatori in pochi mesi, Owen gioca 36 gare in Liga (più della metà dalla panchina) segnando comunque 13 reti. Al Newcastle ne fa 30 in 79 partite. In Nazionale? 40 in 89. Ancora: tutto questo nonostante gli infortuni. Sono dati, non opinioni: quasi 300 goal in poco più di 500 partite. È vero, il più importante è ancora quello di St. Etienne, che trasformò un diciottenne in un Golden Boy. È la firma su un'intera carriera.

È quello da riguardare oggi, con il volume bello alto, si riesce anche a sentire l'urlo di Paul Merson, centrocampista dell'Arsenal in panchina, che guarda i suoi compagni e grida: «What a fucking goal!».
@davcoppo

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