Ibra lancia la sfida a Messi: "Lui è il n° 1 ma qui è dura"

"Il calcio italiano è più difficile di quello spagnolo. Io a Milano altri due anni". Allegri: "Niente partita in difesa. Ci giochiamo la qualificazione al ritorno"

Ibra lancia la sfida a Messi: "Lui è il n° 1 ma qui è dura"

Milanello - Al netto dell’enfasi (il derby del mondo) e dell’argenteria (34 trofei in due) che riluce nel sole abbagliante di Milano, c’è una sola domanda da rivolgere a questo Milan-Barcellona, nobilissimo quarto di finale della Champions ultima edizione. C’è un modo per piegare «la squadra più forte al mondo», definizione gettonata anche a Milanello che di invincibili se ne intendono? La saggezza di Ibrahimovic è il filo conduttore del ragionamento. «Se esistesse un segreto per batterli, l’avrebbero già trovato» la chiosa che potrebbe anche sapere di rassegnazione e invece ha un odore speciale, di grande rispetto per un formidabile rivale.

Le recenti sfide tra i due colossi, apparecchiate dal girone eliminatorio, non concedono sconti al Milan e neanche a Ibra: una sconfitta di rigore (discusso) a San Siro, un pareggio, rocambolesco, al Camp Nou con frustata finale di Thiago Silva, uno dei rimorsi rossoneri di stasera. La formula chimica preparata da Allegri è molto semplice, quasi banale: «Dobbiamo ridurre al minimo gli errori e fare gol per sperare nella qualificazione che ci giocheremo al ritorno. Siamo pronti».

Bandito ogni proposito di alzare barricate o di perdere il sonno per decidere una marcatura. Riuscì all’Inter di Mourinho, nella stagione irripetibile del triplete. «Ma il Milan non può farlo, non abbiamo le caratteristiche» è la spiegazione del tecnico livornese. «Il gioco in difesa non mi piace» fa sapere Ibrahimovic rassicurato più avanti dallo stesso Allegri che cita un precedente a mo’ di esempio. «Se ci difendiamo davanti all’area facciamo la stessa fine con la Juve nei supplementari». Va persino bene prendere gol, fondamentale chiudere con un successo per alimentare speranze vecchie e nuove. «Serve coraggio» la sintesi.

Ecco il punto o meglio la risposta al quesito di fondo. Non c’è un solo precedente da prendere a esempio, non c’è uno schema codificato, non c’è nemmeno a disposizione il miglior difensore al mondo per fermare Messi e soci, anche se Nesta «sta discretamente» il giudizio sul guerriero inghiottito da una serie di acciacchi. E allora? Forse non resta che Ibrahimovic, a cui rivolgersi, tanto per cambiare, nella speranza che il Gulliver d’Italia colmi la distanza rispetto all’armata catalana. 33 gol in 29 partire sono il suo biglietto da visita, arricchito dal riconoscimento per tutto il Milan («da solo non farei nulla»)e da molte assicurazioni sul futuro italiano e rossonero («mi fermo qui per altri due anni, poi vedremo»). Non gli consentono di proclamarsi re per una notte, lui rispetta graduatorie e riconoscimenti che riguardano Messi e Cristiano Ronaldo, «conosco il mio valore e sono tranquillo» anche se non c’è un Pallone d’oro nella sua bacheca. Ibra sa anche «che il calcio italiano è più difficile di quello spagnolo, più elegante, perciò mi piace» ed espone il suo amore per l’Italia. «Questa è la mia seconda patria, qui vivranno i miei figli che sono italiani ormai» racconta ai cronisti di mezzo mondo venuti per interrogare l’ex gitano che ha deciso di mettere radici a Milanello e di sferrare l’attacco alla squadra più forte del mondo.

Ibra sa che Messi è uno col quale bisognerà fare i conti, stasera e tra una settimana. «È il più forte al mondo, gioca con i migliori, è giovane, sta facendo record, ha ancora margini di miglioramento, chissà dove può arrivare» è il suo giudizio stregato. Ibrahimovic non porta rancore. Anzi sembra animato da qualche rimpianto. «Ho l’orgoglio di aver giocato e vinto tanto nella squadra più forte al mondo, non mi vergogno a dirlo, poi sono andato via perché succede anche questo nel calcio e nella vita» il suo racconto mai inquinato da una vena polemica.

Nemmeno quando viene agitata la sagoma di Guardiola: «Non so se ci saluteremo, lui ha i suoi problemi io i miei, il passato è passato». Nemmeno quando gli riferiscono del giudizio sferzante di La Porta («un fallimento il suo acquisto»): «Due anni fa non la pensava così». Nemmeno quando gli chiedono dei suoi rapporti con il gruppo Barcellona: «Ho ancora contatti telefonici con i miei ex compagni di squadra».

Non è diplomazia la sua, Ibrahimovic non la frequenta. Ed è sincero, fino al punto da mettere in un cantuccio la sua passione per Mourinho, quando gli chiedono un pronostico sul duello nella Liga.

«Vorrei che vincesse il Barça» risponde secco mandando in brodo di giuggiole i cronisti spagnoli. Solo uno così, che ha amato pazzamente una squadra per poi lasciarla, può pensare di stregarla in una notte di passione. «Servirà la partita perfetta» la sua sintesi.

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