"Io dato per morto e il mio no a Ferrari"

Intervista a Bruno Giacomelli. Il bresciano era uno dei piloti più amati e spettacolari. E con l'Alfa Romeo spaventò la Rossa. "Vinsi in F3 a Monte Carlo e il Drake mi contattò. Sembrava fatta, ma poi la proposta fu indecente..."

"Io dato per morto e il mio no a Ferrari"

Bruno Giacomelli è sempre in pole position. Anche adesso che sta per tagliare il traguardo dei 71 anni è rimasto a Watkins Glen dove nel 1980 fece partire l'Alfa Romeo davanti a tutti. «Io parlo da pilota. Posso dire quello che dico perché in auto ci ho corso e non ero neppure male anche se in Formula 1 non ho mai vinto una corsa benché quella volta in America ci fossi andato vicino».

Poi?

«Poi si è rotto il motore. Ero arrivato ad avere 12 secondi di vantaggio. Stavo dominando come pochi».

Quella pole non la dimentica?

«Come non dimentico che in Formula 2, dove facevo notizia se non vincevo, ho ancora il record di pole. Ero veloce, ma sapevo anche mettere a punto le auto».

Racconti.

«Quella volta a Watkins Glen il venerdì avevo fatto il miglior tempo ma solo di 12 millesimi su Jones. Feci una modifica sulla macchina e il giorno dopo ho dato 8 decimi a Piquet. Sono quasi 70 metri in un giro Capito?».

Oggi guarda ancora la Formula 1?

«Non mi diverte, ma la guardo. Non sempre però perché ogni tanto faccio dei grandi pisolini».

Che cosa non le piace?

«Troppi cambiamenti, non ci tengo più dietro. È così complicata che forse anche gli addetti ai lavori fanno fatica a capirla. E poi il dominio di Verstappen e della Red Bull è disarmante».

Un po' come la mancanza di competitività della Ferrari

«Ho un profondo rispetto per Vasseur. È uno che sa di corse. Però è arrivato in un ambiente non dei più facili. Anzi, il più difficile della Formula 1. Però non poteva dire di no. Come si fa a dire di no alla Ferrari?».

Fermo un attimo. Lei ha detto di no alla Ferrari all'epoca.

«Certo, Ferrari mi aveva cambiato le carte in tavola da una volta all'altra e io gli ho detto arrivederci e grazie. Sono uno dei pochi ad aver detto no a Ferrari. Era il '76, dopo la mia vittoria in F3 a Montecarlo. Restando a piedi perché per la Ferrari avevo fatto saltare l'accordo con Max Mosley».

Come andò?

«Dopo la prima proposta mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Poi dopo altri incontri mi fece una proposta indecente e io me ne andai».

Pentito?

«Assolutamente no. Se avessi accettato probabilmente la mia carriera sarebbe finita ancora prima di cominciare. Invece tornai da Mosley e lui, dopo che lo avevo tradito credendo in Ferrari, mise in piedi una squadra per farmi correre in F2».

Torniamo a oggi. Che cosa non va a Maranello?

«I piloti non sono il problema. Il problema è la macchina».

Leclerc è all'altezza di Verstappen?

«Questo non lo so. Ma con una buona macchina vincerebbe di sicuro delle gare, ma le vincerebbe anche Sainz».

Quindi qual è il problema Ferrari?

«Sono sicuro che non siano ancora riusciti a ottenere la messa a punto ideale della macchina. Io so come cambiano le prestazioni tra una macchina regolata bene e una che non lo è. Oggi ci si fida troppo del computer che ti dà un sacco di dati, ma non ti dice se la macchina va bene o male, quello può dirlo solo chi la guida. Sono convinto che la Ferrari non sia regolata bene».

Alla fine conta solo la macchina?

«Il nostro è uno sport dove il mezzo meccanico fa la differenza e anche un pilota non eccelso può fare risultato con una macchina eccezionale. Il sogno è avere tutti i piloti sulla stessa macchina. Io non ho mai preteso la macchina migliore, mi bastava averla uguale, poi la differenza la facevo io».

Le macchine di oggi sembrano più facili da guidare.

«Fare una prestazione assoluta è sempre difficile, ma è certamente più facile guidare le monoposto di oggi. Il problema della cambiata non esiste, il problema della scelta dei rapporti non c'è, hanno il servosterzo, hanno il controllo della trazione regolato dai computer. E poi ti dicono dai box che cosa fare».

Sono anche molto più sicure.

«Purtroppo ho visto morire tanti amici e ho corso in anni in cui macchine e circuiti erano pericolosissimi senza vie di fuga. Però a costo di esser preso per pazzo vi dirò che il pericolo è stato quello che ha reso grande e affascinante l'automobilismo».

Ha mai avuto paura?

«Non ho mai avuto paura, ma l'ho presa tante volte. Non mi veniva prima, ma solo durante l'incidente».

Una volta a Zeltweg nel 1986 l'hanno data anche per morto.

«Stavo correndo nei prototipi con la Lancia. Mi scoppiò una gomma. Mi ribaltai. Pensavano fossi morto. Solo Stuck insistette per venire a soccorrermi e si ustionò le mani per girare l'auto che era finita a testa in giù. Ero pieno di sangue perché mi ero morso la lingua e avevo perso conoscenza. Mi sono risvegliato in ospedale».

Che cos'è? Coraggio?

«Il pilota non è una persona normale, una certa dose di incoscienza deve averla. Ma non ci vuole coraggio. Io non mi reputo particolarmente coraggioso. Fino a 20 anni avevo paura anche dei barboncini dopo che il mio cane mi aveva morsicato da piccolo. Da fuori lo chiamano coraggio, ma è solo predisposizione».

Basta?

«Devi avere anche passione. Non grande, non grandissima. Smisurata».

Ma non le piacerebbe correre nella Formula 1 di oggi?

«Mi piacerebbe essere più giovane. Questo sì».

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