Sport

"Io dormivo in stazione Ora, a calci e pugni, insegno a non buttarsi via"

Milionario, è il re della kickboxing. Partito con niente, girano un film sulla sua vita da romanzo

"Io dormivo in stazione  Ora, a calci e pugni, insegno a non buttarsi via"

Tra la povertà assoluta e il diventare campione del mondo ci sono 15 giorni di viaggio al gelo dentro un tir. Aveva solo 13 anni Giorgio quando assieme al papà e al fratello nel 98 lasciò la natìa Yerevan e viaggiò nascosto in un autocarro per fuggire dalla miseria. Arrivato a Milano da clandestino, in quelle notti sulle panchine della stazione Centrale in cerca di un angolo dove dormire, Giorgio guardava in alto le stelle nella speranza di poter salire un giorno quel ring come nei film di Bruce Lee che tanto gli piacevano. Solo che la vita non è colori e petali rosa e Giorgio Petrosyan, in quel momento, doveva affrontare il peggiore degli avversari: la fame. Dopo essere finito alla Caritas di Gorizia con lo status di rifugiato politico, in attesa di un permesso di soggiorno, il sognatore Giorgio che si procurava da mangiare lavorando come lavavetri, alla fine su quel ring ci è salito, portando con sé la rabbia degli ultimi, dei disperati, dei miserabili. Finendo poi per alzare le braccia verso il cielo, da campione del mondo. Da clandestino a leggenda. Se solo fosse un film

«Ed è proprio così. Infatti il film della mia vita uscirà il prossimo anno».

Dal nulla assoluto a leggenda della kickboxing. Di più: il primo nel suo sport a intascare un milione di solo premio. Poche settimane fa. Come è riuscito a cambiare la sua vita?

«A tredici anni sono partito dall'Armenia e una volta arrivato a Milano dormivo in stazione Centrale dove faceva un freddo allucinante. Io, mio fratello e mio papà non avevamo un posto dove dormire. Adesso proprio a Milano ho la mia casa, la mia attività, la mia palestra, la Team Petrosyan in via Sibari 15 (zona Ripamonti), dove insegniamo tutto, dalla disciplina al rispetto, cose che al giorno d'oggi sembrano mancare ai giovani».

Milano l'ha accolta e ora lei l'1 febbraio difenderà il titolo.

«Mi aspetto tanta gente e molti tifosi qui a Milano, casa mia. Ci sarà spettacolo, musica, luci e vip. Bisogna assistere dal vivo per capirlo. Venite a vedermi».

Perché ha scelto la kickboxing?

«Perché da piccolo vedevo molti film di Bruce Lee e Van-Damme, con l'idea di combattere e diventare il numero uno. Alla fine ci sono riuscito».

Perché un giovane dovrebbe praticare la kick? C'è chi sostiene che sia pericolosa.

«No assolutamente. Anzi, in Italia la kickboxing si sta diffondendo sempre di più. Adesso è conosciuta tra i giovani. Quando ci sono eventi nei palazzetti, questi sono sempre pieni e ci sono tanti bambini. Come in Asia, dove è anche il primo sport e dove è nata questa disciplina (originaria del Giappone e poi diffusasi negli Usa, la kickboxing coniuga il calcio tipico delle arti marziali con i pugni della boxe, ndr)».

Il pugile Scardina è già diventato l'idolo dei giovani.

«Ci siamo conosciuti. Ma la differenza tra noi due è quella che puoi trovare tra una squadra di metà classifica di Serie A in confronto con il Barcellona. E io quando mi sono ritrovato ad affrontare gli otto atleti più forti dal mondo ho vinto».

Ma lei che rapporto ha con la boxe?

«Non l'ho mai praticata. Anche se a Gorizia mi allenavo nella palestra di Paolo Vidoz (bronzo a Sydney 2000 nei supermassimi e campione europeo tra i pro nei massimi, ndr), sotto casa dei suoi genitori. È stata la mia fortuna».

Perché il soprannome di «Il Dottore» come Valentino Rossi?

«No, questo soprannome me l'ha affibbiato un arbitro perché ho un sinistro chirurgico, che è il mio colpo preferito. Una volta ho messo ko un avversario con quattro colpi sulla coscia nello stesso punto e da allora sono il chirurgo. A proposito di dottori, ormai sono stato così tante volte sotto i ferri per interventi alla mia mano sinistra che ho perso il conto. Ringrazio il dottor Pegoli che mi ha rimesso le mani a posto».

Il suo amico Balotelli tra buu e prestazioni vive un momento no.

«Mario è un amico, ha un gran fisico e se la cava bene nella kick. Io però non seguo molto il calcio, ma quello che posso dire è che nel nostro mondo ci sono solo applausi e niente gestacci. Il nostro è uno sport sano dove ci sono delle regole da rispettare».

In tempi di ius culturae e ius solis, lei da che parte sta?

«La cittadinanza la deve ottenere chi la merita davvero. Io l'ho ottenuta nel 2014 dopo tanti sacrifici. In questo periodo si parla tanto di stranieri, ma non siamo tutti uguali: chi sbaglia deve pagare, punto.

Perché ci sono stranieri che sono qui e lavorano e meritano la cittadinanza, e c'è chi ce l'ha e va in giro solo a fare casino?».

Commenti