«Io nato a Betlemme con il Var avrei vinto di più»

Così lo indicavano da bambino accostandolo a un Gesù del calcio. Domani il compleanno del Golden Boy

«Io nato a Betlemme con il Var avrei vinto di più»

di Riccardo Signori

Rivera è sempre Rivera: mette la palla, oggi la battuta, dove non immagini. A 20 anni diceva: non so cosa farò da grande. E ora che gli anni sono 80. Anzi domani saranno 80?

«Devo capirlo ancora adesso. Però un'idea ce l'ho: non l'avevo mai pensato, ma potrei fare l'allenatore. In fondo ero un allenatore in campo, ufficialmente non l'ho mai fatto. Ora ho anche il patentino e sarebbe un ritorno al passato».

Suvvia Rivera, a 80 anni.

«Appunto, a 80 anni sto seduto in panchina. Non capisco gli allenatori che corrono lungo la linea. Sbraitano troppo, non so cosa capiscano i giocatori. Liedholm non si alzava mai dalla panchina. Solo una volta quando gli arrivò addosso una pallonata. Disse al giocatore: ti do un pugno di vantaggio, poi comincio io. Sorrise e tornò a sedersi».

Dici Rivera e pensi Rocco. Giusto?

«Rocco è il mio preferito. Aggiungo Liedholm ed Edmondo Fabbri, che è stato sfortunato: aveva idee eccezionali, utili alla squadra. Inventò il libero davanti anziché dietro. Poi gli è andata male. Peccato, avrebbe fatto di più».

C'è libero il posto della nazionale

«Perché no? Sono candidato. A Mancini gli arabi daranno tanti soldi. Doveva andare via prima, ma non aveva le garanzie arabe. Io costo anche di meno e non devono neppure pagare cifre a vuoto per prendermi».

Ma Rivera, sul campo, era quello del tocco in più

«Il tocco in più è un fatto naturale. Meglio un tocco in più che perdere il pallone. Il mio tocco in più era quello giusto».

Rivera era Golden Boy e Abatino, anche Nureyev. Facevano piacere gli accostamenti?

«Mi faceva piacere l'accostamento a persone abili e serie. Nureyev era il più grande ballerino dell'epoca: era un piacere. Sennò me lo dicevo da solo». E parte la risata.

Passano gli anni, ma non manca l'ironia

«Serve per mantenersi giovani. Ci dicono che possiamo campare fino a 130 anni. Dunque conto di andare avanti il più possibile. Paul McCartney e Mick Jagger, a 80 anni, fanno concerti. Biden, il presidente Usa, regge il mondo e siamo quasi coetanei. John Glenn a 77 anni è tornato nello spazio e ne è ridisceso. Mai mettere limiti».

Rivera cominciò dai salesiani di Don Bosco

«Giocavo come tutti i ragazzini per strada, poi arrivavano i vigili e ti portavano via il pallone. Così mi suggerirono di andare all'oratorio: una volta facemmo una partita e finì 10-0 per noi. Segnai io tutti i 10 gol. Pensai: forse posso fare un'altra categoria. Rimasi stupito».

Rivera nato a Betlemme, disse un bambino.

«Lo ricordo. Una battuta divertente, soprattutto perché non era possibile. I bambini hanno sempre idee chiare, magari un po' esagerate».

Rivera nato a Valle San Bartolomeo, a pochi km da Alessandria, ma cominciò da numero 8 in maglia grigia, prima del 10 in rossonero. Debutto in prima squadra contro l'Inter nel 1959. Ma nella stagione successiva, quando il Milan lo aveva già bloccato, prima partita AlessandriaMilan 3-1, arbitro Lo Bello. Un segno del destino?

«Questa è bella, non ci avevo fatto caso. Si, doveva essere destino».

Con Lo Bello, e gli arbitri, furono battaglie

«Ho rispettato chi ci rispettava. Ma se andavano contro di noi alzavo la voce. Non erano battaglie per me stesso, ma per la squadra e per tutti noi. Lo Bello ha fatto record in una partita a Bari, poi vinta facilmente. Concede una punizione a fine primo tempo, perdiamo minuti per mettere tutto a punto. Viene e mi dice: tiri. Calcio e mentre la palla sta per finire in rete, lui fischia la fine. Gol annullato. Cosa pensare?».

Rivera ha vinto tanto (3 scudetti, 2 coppe Campioni, 2 coppe Coppe, 1 Intercontinentale). Quale vittoria l'ha fatta godere di più?

«Quando vinci, godi per tutto. Però c'è un rimpianto: potevo vincere di più. Ma troppa gente non era d'accordo: anche gli arbitri. Ci fosse stato il Var avrei vinto di più».

E che dire dei famosi sei minuti in Italia-Brasile?

«Il ricordo che mi è rimasto più sullo stomaco. Era la mia partita. Magari non le altre, ma con il Brasile era la partita fatta per me. Loro grande tecnica, io tecnico che si batteva alla pari. Non ho mai capito quei 6 minuti, con Mazzola avevamo fatto staffetta altre volte. Ma l'ambiente non mi voleva. Forse non volevano vincere. Forse hanno voluto punirmi, non capisco perché? Alcuni, il direttore della Gazzetta, il responsabile tecnico di Coverciano, erano amici di Moratti, presidente dell'Inter. Se potevano fare dispetti al Milan... E quindi li facevano anche a me. È stato autogol. Un dispetto a tutti. Non sapremo mai la vera storia».

Il rapporto con Mazzola?

«Avevamo un grande rapporto, abbiamo sempre giocato insieme in nazionale. Qualcosa è successo».

A proposito di grandi giocatori, c'è stato uno che ha ammirato?

«Su tutti Pelè. Se non c'era il calcio, lui lo avrebbe inventato. Era bravo perfino in porta. Una volta l'allenatore del Santos lo ha camuffato, messo una maschera e detto ai giocatori che non sapevano: proviamo questo portierino, vediamo come va. Pelè parò tutti i tiri. E dopo svelò il segreto».

Allora Pelè meglio di Maradona?

«Certamente. Pelè aveva due piedi».

Pelè ovvero numero 10. Quando in Italia si dice numero 10, almeno per chi ha dai 50 ai 90 anni, si pensa Rivera

«Mi conoscono anche i più giovani. Incontro i bimbi, vogliono far foto. Ne hanno sentito parlare dai genitori».

Avranno raccontato di quel 1979 a San Siro: Rivera convince la gente a spostarsi da una zona dei popolari per giocare la partita. Come Mosè che aprì le acque

«Era l'unica soluzione, andare in campo e spiegare il problema. È stato un segno di grande affetto del pubblico nei miei e nei nostri confronti. Ho detto: se non giochiamo perdiamo partita e scudetto. Più di così non potevo. Nessun calciatore poteva fare qualcosa. Ci abbiamo provato: mi hanno accontentato. E hanno accontentato anche se stessi».

Parliamo di presidenti. Presidenti del Milan: il preferito?

«Rizzoli è stato un grande presidente. Aveva idee, Milanello è stato merito suo. Seguiva i giovani che stavano a Milanello. È stato importante anche padre Eligio che ha portato idee positive. Ogni tanto qualcuno diceva: Padre dica una preghiera per farci vincere. E lui: no, a quello dovete pensare voi».

Padre Eligio importante anche per Rivera

«Certo, mi ha fatto presidente di Mondo X. Mi ha aiutato pure in politica lavorando nel sociale: una grande mano».

Come è stata l'esperienza politica, il lavoro in Parlamento

«Lo facevo a modo mio: sempre diretto. Avevo proposto anche una legge sullo sport per legare l'attività del ministro dello sport a quella del Coni, con presidenza unica. Al Coni si sono imbufaliti e quando la proposta era pronta, i firmatari hanno detto: cosa ci hai fatto firmare? E tutto è saltato».

Cosa le ha insegnato la politica?

«La politica insegna tutto, anche cose buone. Talvolta fatichi a mantenere quello che prometti in campagna elettorale. Quindi capisco quando i governi non mantengono le promesse. Nessuno ci riesce, ma se non prometti non ti eleggono».

Ultimamente si è schierato fra i no vax. Ancora?

«Ancora. Nessuno ha detto quanti ne sono morti dopo essere stati vaccinati. Da bambini ci vaccinavano, ma erano vaccini sperimentati. Qui non altrettanto».

Tornando al calcio, cosa butterebbe oggi?

«Tutto quanto fa male al suo mondo: non bisogna combattere per far vincere una squadra. Deve vincere il più bravo».

E cosa tenere?

«Il gioco del calcio che non sono riusciti a cambiare. Anche se ho creduto che avessero cambiato le regole con la mania di partire da dietro. Se fosse esistita ai tempi di Italia-Germania, non avrei fatto quel gol. Ero partito per scartare tutti, poi ho cambiato strategia ed è andata bene».

E questo calcio senza bandiere che esagera con i danari?

«Il problema è che circolano troppi soldi e preoccupano. Io sarei pronto a rientrare (risata ndr.). Ma il calcio è talmente forte che comunque sopravviverà. Il calcio in mano ai procuratori è questo: loro vogliono soldi e i giocatori devono fare quel che dicono. Non credo ci sia qualche presidente federale che voglia cancellare i procuratori».

Rivera ha mai provato a fare il dirigente federale?

«Non me lo hanno permesso. Potevo arrivarci con Tavecchio, ma le cose sono andate male. Mi è dispiaciuto».

Oggi, a 80 anni, cosa dice ai suoi figli?

«Ormai vanno per conto loro. Sono bravi ed hanno indovinato la loro strada. Mi basta che il maschio riesca a fare ciò che vuole: si è diplomato in percussione ed ora sta facendo un grande lavoro sul pianoforte».

Ovvero il talento del papà nei piedi e lui lo ha nelle mani.

«Quello sì. Da piccolo, a 9 anni, si era affezionato alla batteria. Mia figlia è diplomata come scenografa. Son contento perché sono seri: spero abbiano preso da me e mia moglie».

Un altro alessandrino, Umberto Eco, vi ha definito così:

Risoluti, concreti, poche passioni e tanti fatti. Refrattari all'entusiasmo, figuriamoci all'Utopia. Si riconosce?

«Perfetto. Siamo tutti così. Mi riconosco anche se in qualcosa forse sono cambiato. Ma lo stampo è questo».

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