Complicato fare l'immigrato all'Est. Lì, dove costruiscono muri col filo spinato e dove si va a caccia di intrusi col cane lupo, si vive tutti nel ghetto. Anche se sei quasi famoso. Anche se te la spassi nell'isola felice del calcio professionistico. Di solito ti fai la partita sommerso di ululati senza che l'arbitro si scomponga. Normale, all'Est. Per fortuna ogni tanto succede qualcosa che cambia le carte in tavola, il corto circuito che fa notizia. La storia di Francis Koné (raccontata da Dominic Fifield, in un pezzo condiviso 9000 volte sui social network) è di quelle che sembrano ideali per essere tramandate. Koné ha 26 anni, è un togolese originario della Costa d'Avorio alto un metro e novanta, gioca da attaccante nello Slovacko, la squadra di Praga, e ha dietro di sé otto anni di carriera professionistica.
La notizia non sono i pochi gol che fa (solo due quest'anno), ma il fatto che sia uno specialista nel salvare vite umane, senza aver mai seguito un corso di pronto soccorso. E in questi otto anni di attività, quattro suoi avversari gli devono tutto. Un valore aggiunto per uno che vale 200mila euro. L'ultimo ad essere soccorso - una settimana fa - è stato Martin Berkovec, portiere dei Bohemians 1905 dopo uno scontro che l'aveva lasciato privo di sensi sul campo. «Ero lì, ho visto gli occhi ruotare all'indietro. Mi sono avvicinato, gli ho messo la gamba intorno al petto per evitare che si ferisse in una convulsione, ho iniziato a tentare di aprirgli la bocca per controllare che la lingua non gli fosse finita in gola. Un paio di compagni di squadra sono arrivati a darmi una mano, mi hanno aiutato a spostarlo di lato, io gli ho aperto la bocca e gli ho liberato le vie aeree. Mi ha anche morso, involontariamente. Ma era salvo. A quel punto mi sono alzato, e mi sono allontanato». Il medico della squadra avversaria ha spiegato poi che quell'intervento così tempestivo e competente ha contribuito a salvare la vita del portiere. I tifosi avversari, che per tutto il match lo avevano bombardato di fischi, gli hanno scritto una lettera di scuse.
Koné aveva fatto lo stesso in Tailandia, dove aveva iniziato la carriera professionistica, e due volte in Africa. «La prima volta che mi è capitato, non l'ho nemmeno detto a mia mamma, per non spaventarla».
La storia di Kone è degna di essere raccontata sin dai titoli di testa. Sin da quando trascorse la giovinezza a pescare gamberetti e a lavare macchine per guadagnare abbastanza da permettersi un paio di scarpe decenti. Poi la svolta calcistica.
Invece dell'«amata» Inghilterra, l'agente lo spedisce in Tailandia. «Ero giovanissimo e dovevo essere forte in un paese nuovo ed estremamente razzista. Ero l'unico calciatore nero e venivo preso di mira, praticamente un incubo». D'ora in avanti sarà complicato fischiare un eroe.
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