Dal nostro inviato a Rio de Janeiro
Alle 15.48 di Rio Giovanni Pellielo sbaglia il colpo dell'oro. È il shoot off, il colpo dello spareggio finale ed è come sbagliare un rigore ad oltranza. Non c'è più rimedio. Non c'è ritorno. Vince il croato Josip Glasnovic, Pellielo è d'argento. Davanti c'è un prato di piattelli arancioni su campo verde, le montagne all'orizzonte. È il tiro a volo dalla fossa olimpica. Stanno uno accanto all'altro, colpo a colpo, e dopo ogni colpo si scambiano uno sguardo, un sorriso, come due amici alla fiera di paese o due cecchini che hanno ripudiato la guerra.
Il testa a testa era già da brividi in semifinale. Il croato non sbaglia nulla, si muove sulla linea della perfezione. Come si fa a battere uno così? Serve un vento bastardo che tifi contro di lui. Niente. Fa quindici su quindici, mentre Giovanni se ne perde uno. È a un passo dal tutto, ma è buono per andare in finale. Il tiro a volo fa parte della nostra tradizione olimpica. Pellielo ne è un pezzo importante, di lungo corso. Settima olimpiade e quarta medaglia, il terzo argento dopo Atene e Pechino e un bronzo a Sydney 2000. Quello che manca è sempre lui, l'oro, ed è così anche stavolta.
Pellielo alza le spalle. Non è andata, ma un altro argento non cancella niente. Non è mai una delusione. Pellielo che se è qui lo deve alla madre, cacciatrice e tiratrice, che lo ha portato la prima volta a sparare quando aveva 18 anni. Ed erano anni in cui si divideva tra due passioni, il ballo, liscio, e questo sport per pochi, con cui non si diventa ricchi e che ti porta ogni quattro anni a giocarti tutto. Alla fine il ballo è andato via. Resta la voglia, che non passa mai. Giovanni che cresce in una delle prime famiglie di separati e lui va a vivere con la madre. Era il 1976. "Non avevo nemmeno la possibilità e l'opportunità di potermi allenare perché mia madre lavorava in fabbrica, prendeva 600 mila lire al mese. Mi ricordo che abbiamo avuto anche una struttura che mi ha aiutato e che ha permesso a mia madre di pagare ratealmente quest'arma 682 e io praticamente sono diventato Pellielo, ho vinto tutto con gli anni, ma prima non potevo chiedere a mia madre sforzi ulteriori, intanto io andavo a scuola e il sabato andavo presso un campo di tiro a volo quando avevo 18 anni lavorando come segretario il sabato e la domenica quando gli altri sparavano e partecipavano alle gare. Io prendevo le iscrizioni, curavo la segreteria e quindi recuperavo poi una paghetta settimanale che mi consentiva di comprarmi le cartucce e di allenarmi. È cominciato tutto così".
L'oro è vicino. È a un passo. Primo sparo. Colpito. Ma va bene anche all'altro. Secondo ed è la stessa storia. Si ripete al terzo. Ora si sta sospesi sul tre a tre. Pellielo prega, perché ci crede, anche se non vorrebbe chiedere questa cose al Signore, ma se hai fede hai fede e vale sempre. Sembra o si sente un apostolo con il fucile da gara; per questo dà del tu al Signore; per questo gli chiede apertamente, "dai, aiutami". Ma senza impegno. L'oro non deve diventare un'ossessione. Luccica, ma se ne può fare a meno.
Ecco qui, ci siamo. Sono le quindici e quarantotto di un lunedì brasiliano.
Pellielo punta per il quarto piattello. Lo manca. Colpa del vento e della paura. Per questa volta ci si ferma qua. "Ho perso l'oro ma ho vinto l'argento". Tokio è solo tra quattro anni. "Ci andrò. Fare sport allunga la vita".
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