Puntuale, come la cartella delle tasse, è arrivato il lamento del cittì. Cambiando l'ordine degli allenatori la denuncia non cambia: pochi i calciatori italiani in campo, dunque difficile è l'impresa del commissario tecnico, costretto, si fa per dire, a scavare e scovare chissà quali talenti, nascosti o trascurati. Mancini è l'ultimo del corteo, prima di lui avevano manifestato uguale preoccupazione e senso patriottico, Lippi, Prandelli, Conte, Ventura. Così come aveva detto le stesse cose Fabio Capello ai tempi della sua guida tecnica della nazionale inglese, con una folla di foreign players e poca roba locale. Lamenti sacrosanti ma è come scoprire l'acqua calda. Perché gli stessi allenatori quando allenano il club se ne infischiano delle esigenze del calcio nazionale ma, se chiamati a difendere l'onore della patria calcistica, allora vengono presi dal furore e chiedono agli altri di fare quello che loro stessi non avevano fatto. I grafici in alto spiegano e confermano come, ad esempio, lo stesso Roberto Mancini, nelle sue esperienze all'Inter, al Manchester City e allo Zenit si sia comportato in modo diametralmente opposto alla politica che lui medesimo chiede oggi ai colleghi.
Non ci può essere soluzione, il problema andrebbe affrontato all'origine. Sta alla federazione, sempre che ne senta la necessità presa come è, da sempre, ad occupare potere più che progetti, sta al sistema istituzionale difendere il calcio nazionale con un regolamento che limiti l'utilizzo (non il tesseramento perché andrebbe contro la libera circolazione dei lavoratori) in campo, dei calciatori stranieri, extracomunitari e non, al massimo cinque per consentire, così, di schierare almeno sei italiani. E' un'impresa titanica, i clubs non hanno alcuna voglia di una autarchia tecnica che frenerebbe gli investimenti all'estero. Possiamo anche immaginare la reazione degli agenti e procuratori che spacciano ogni tipo di assistito, soprattutto proveniente da federazioni estere, dunque si ritroverebbero con il portafoglio dimezzato. Ma non ci sono alternative.
La rappresentativa nazionale è ancora importante? Questo è un altro quesito intorno al quale gira tutto il resto. In un mondo professionistico proiettato sugli affari diventa arduo conciliare le esigenze dei club con quelli della federazione. La nazionale ha dei costi, riceve copertura dagli sponsor ma non produce redditi così come le società professionistiche. Mancini, come altri che lo hanno preceduto, conosce bene i due mondi, le due realtà che faticano a convivere. La replica di Zanetti: «In serie A devono giocare quelli bravi e non gli italiani» è giusta a livello teorico ma fa a pugni con la realtà tecnica che vede in campo figure che con la bravura hanno poco a che fare e che vengono acquistati e poi impiegati soltanto perché frutto di operazioni all'estero, con tutti gli annessi e connessi.
Al riguardo, lo stesso grandissimo capitano dell'Inter ricorderà di essere arrivato nel Novantacinque a Milano e con lui Rambert e Caio, di cui molto si scrisse e pochissimo si ricorda se non che fossero, il primo, argentino, il secondo, brasiliano. Il resto è Italia.
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