In pochi ritengono che Diego Maradona sia volato in Messico per perpetrare la speranza laica dei tifosi dei Dorados. Il club della città di Culiacàn si aggrappa al penultimo gradino della seconda divisione e un balzo in avanti non viene persino tenuto in considerazione dagli allibratori. L'ex pibe vive una fase di confusione professionale: ha accettato la presidenza onoraria del bielorusso Dynamo Brest, ma poche settimane dopo è sbarcato in Messico, non prima di aver quasi supplicato la federcalcio di Buenos Aires di affidargli l'albiceleste.
Ecco quindi che il Messico diventa una sorta di amuleto, l'evocazione di quell'irripetibile 1986, quando sollevò nel cielo dell'Azteca la Coppa del Mondo. All'aeroporto di Culiacàn lo aspettavano in 300, davvero poca roba. In città c'è perplessità e la gente si domanda che cosa sia venuto a fare. Il sindaco, Antonio Castañeda, parla di un'operazione squisitamente sociale. Culiacàn è la capitale messicana del narcotraffico, «ma l'arrivo di Diego potrebbe salvare le nuove generazioni, come quando ripulì Napoli dalla camorra».
C'è qualche vuoto di memoria nelle parole dell'alcalde, che per intenderci non sa neppure la categoria di appartenenza dei Dorados. In tutta onestà non è un peccato capitale, a queste latitudini stravedono per i Tomateros, la squadra di baseball, lo sport più praticato. I Dorados esistono soltanto dal 2003, due anni dopo ingaggiarono Guardiola e il Loco Abreu sul viale del tramonto. L'unico acuto risale al 2012: una coppa messicana conquistata grazie ai gol di Cuauhtémoc Blanco, oggi governatore della regione. Maradona vorrebbe spezzare le catene dell'anonimato, ma rischia di non sedersi neppure in panchina. I documenti sono in regola, il suo fisico ancora una volta no.
Per lui il proprietario Jorge Alberto Hank ha inventato il ruolo di supervisore tecnico. Lo spettacolo inizia martedì in casa contro i carneadi del Cafetaleros di Tapachula. Lo stadio di Culiacàn può accogliere 20mila spettatori. Al botteghino sono stati staccati 3mila tagliandi.
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