
È tutto vero, Mattia. Dopo il trionfo mondiale, Furlani ancora non riusciva a realizzare la portata della sua impresa storica. "Non so se è reale, finché non sento l'inno non ci credo", raccontava l'altra sera. Ieri, nella medal plaza allestita al di fuori dello stadio, il più giovane iridato nel lungo (battuto Carl Lewis, di cui "invidio la leggerezza" dice l'azzurro) è salito sul gradino più alto del podio e si è finalmente reso conto del suo successo. "Come si sta sul tetto del mondo? È bello bello", sorride Mattia, il ragazzo di soli vent'anni diventato grande in fretta. "La prima cosa che ho fatto sul podio è stata guardare tra la gente. E ho visto subito mamma. Ho pensato poi a tutto quello che abbiamo fatto quest'anno: mi è venuta in mente Nanchino, dove avevo vinto il mondiale indoor. Era la prima, però questa qua pesa il doppio".
Della mamma-allenatrice Khaty Seck, con la quale Mattia si è abbracciato al termine di gara, si è parlato molto. Ma poco del papà Marcello. Lui è sempre stato dietro le quinte, ma l'abbiamo incontrato proprio pochi minuti prima dell'inizio della cerimonia. Racconta: "Io e Khaty ci siamo incontrati nell'88 al campo sportivo di Frascati, perché lei faceva atletica. Io mi allenavo lì e lei era venuta in Italia con i genitori che erano diplomatici. Suo papà era il segretario dell'ambasciatore del Senegal qui in Italia. Ci siamo conosciuti agli allenamenti e da lì inizia la nostra storia". È proprio l'atletica che ha unito la velocista e l'ex saltatore in alto da 2,27 metri di personale, primato stabilito il 12 ottobre 1985, quarant'anni fa, in una gara a livello regionale alla Farnesina. "Il mio miglior risultato è stata la vittoria al campionato italiano di società sempre nell'85 prosegue Marcello Furlani . Purtroppo le gare internazionali non me le facevano fare, la convocazione in Nazionale non andava per meritocrazia, ma andava per favoritismi. Ho partecipato a un triangolare Italia-Cuba-Stati Uniti e c'era anche Javier Sotomayor. Gareggiai anche se ero infortunato".
Figlio di due sportivi dell'atletica, Mattia non poteva che abbracciare questo sport, anche se il basket era una magnifica ossessione ("Kobe Bryant il suo idolo"). Dal papà ha preso le caratteristiche da saltatore, mentre dalla mamma la velocità e l'agilità nella corsa. "Io avevo dei piedi buoni e lui altrettanto, anzi direi molto meglio - sorride Marcello -. Quando Mattia era piccolo lo allenavamo tutti e due, io lo preparavo sulla parte tecnica quando lui ha iniziato con il salto in alto. Ma si cimentava già anche nel lungo. Quando poi agli Europei under 18 a Gerusalemme ha vinto l'oro nel lungo con 8,04 si è preferito percorrere solo una strada. Lì c'erano più chance". A guidare Mattia nel ruolo di coach in questo percorso è stata poi solo la madre. "Sì, perché io sono rimasto a lavorare in finanza e già facevo avanti e indietro tra Roma e Rieti. Abbiamo deciso con Khaty: o lo alleni tu o lo alleno io. Due galli non potevano cantare nello stesso pollaio.
Di Mattia mi stupisce la sua testa, sembra quella di un trentenne. Io ero molto diverso, lui molto più maturo. Ma adesso scusatemi, vi lascio per andare a vedere mio figlio salire sul podio...". E cantare l'inno d'Italia. Sì, è tutto vero.