L'uomo degli altipiani della vita se n'è andato in un lampo. Coerente con se stesso, coerente con la sua storia. Pietro Mennea correva in pista sulle distanze più veloci, nella vita faticava sulle lunghe distanze infilandosi nell'infernale saliscendi che ti fa sentire la voglia di sofferenza, eppoi la voglia di levare il dito contro tutti. Un'altra sua specialità. Era nero dentro, lo raccontò a Muhammad Alì che stupì nello scoprire che l'uomo più veloce della terra era bianco. Bianco, brutto e cattivo, ma di una cattiveria agonistica. E ti tuffi in Gianni Brera che lo tocca sulla crapa e gli dice: ragazzo, tu vieni dalla Mesopotamia. Ma poi si innamora di quello che in serata di scarsa luna sarebbe stato uno stortignaccolo italiano, e in giorno di grazia diventò la fatica esaltata nel dolore, o anche lo sberleffo di Apollo che non ti volle suo simile.
Mennea è morto nel primo giorno di primavera, proprio come sua madre tre anni fa. Chissà, invece, quante volte gli sarà piaciuta quest'aria che annunciava il ritorno al suo mondo sotto le stelle: pista e tartan, gare e sfide. Diceva: «Non smetterò mai di correre, perchè la corsa non finisce mai». Cinque olimpiadi, da Monaco 1972 a Seul 1988, per dimostrarlo in pista. Poi tutti in pista nella vita. Urticante e attraente. Non era un simpatico naturale, ma non potevi negargli la stima. Tormentato e tormentoso. Correva e sgomitava, secchione in pista e secchione fuori pista: ori e allori, lauree e grande cultura, avvocato e commercialista, tante facce di un mondo che conquistò a modo suo. Aveva il talento di quelli che sanno di non avere il talento. Modesto, infernale nella primitiva lotta contro la fatica. Brera lo adottò: guida noi brutti alla conquista. Con il professor Vittori si è sempre dato del Lei. C'è modo e modo di essere diversi.
Mennea è rimasto un campione diverso. Oggi lo piangeranno in tanti, tutti, ma fino a ieri dove avevate messo Mennea Pietro eppoi Paolo, due apostoli in un uomo solo? Un campione da tenere nella bacheca, ma da lasciare navigare solitario nel suo mare azzurro increspato della vita. Coerente che andava a corrente: il camminare un po' altezzoso in punta di piedi, quella parlata che mitragliava sentenze e ricordi, e che sottintendeva sempre il ditino alzato, erano scarica elettrica. Non c'era convenzionalità, ma convenzioni da rispettare nel nome del suo Io. Amava quell'Io che significava determinazione ad arrivare, primeggiare nel nome di uno sport che immaginava pulito. Raccontava: «Se oggi la gente vedesse i filmati dei miei allenamenti si spaventerebbe». Un giorno gli scappò di far due conti: 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, tre europei, medaglie europee e mondiali, il primato del mondo dei 200 metri (1972) durato un'eternità, ultimo recordman mondiale bianco dello sprint, 5 olimpiadi e 4 finali. Non c'era bisogno di guardarsi allo specchio per sentirsi soddisfatto di se stesso.
Dici Mennea e basta la parola: è stato il migliore degli italiani possibile, ma il peggiore da cui prendere esempio. Ha spiegato che nulla è proibito, basta volerlo, sfruttare la fatica, usare la fatica per sognare. «E se avessi avuto il fisico di Bolt i miei record sarebbero stati ben altri», raccontava quando non trovava freni. Mennea è figlio di un'altra atletica e forse di un'altra Italia. Quella di chi ha la testa prima del cuore, il cuore prima delle gambe, le gambe prima del narcisismo, fatica da bestia e monacale adesione alle sofferenze imposte dal tecnico. Ci ha detto che non è necessario essere Einstein, ma bisogna essere Mennea. Figlio di un sarto e di una casalinga, terzo di cinque figli ed ha sempre corso: in bici per andare a giocare a pallone. A piedi contro le auto quando gli serviva raccogliere qualche soldo: sul vialone di Barletta sfidava sui 50 metri Lancia, Alfa, Porsche. Raccontava: «Io da fermo e la macchina a motore spento. Oppure io 10 metri più avanti e la macchina a motore acceso. E, se vincevo, mi portavo a casa 1000 lire».
Lo chiamavano la Freccia del sud, in realtà era la Freccia d'Italia. E adesso sarà anche un Frecciarossa, visto che (un po' in ritardo) gli intitoleranno un treno. Si cibava della rabbia di quelli del Sud, lo spiegò a Steve Jobs. «La fame bisogna averla dentro». Tutto cominciò inseguendo un tal Pallamolla e l'insoddisfazione non si placò finchè non riuscì a batterlo.
Poi ci furono Alan Wells, Don Quarrie e Valeri Borzov, i grandi avversari, i due ori degli europei 1978, la straripante rimonta a Mosca '80: Wells tre metri avanti, Pietro penultimo all'uscita dalla curva. Ma poi va, va, e va. Diceva Vittori: bastava guardare la sua faccia e le sue smorfie, per capire. Il ditino alzato, le smorfie, l'inimitabile voglia di arrivare. Ce lo siamo gustati, alla faccia delle sue facce.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.