Una vita insieme, nati per amarci tanto e odiarci qualche volta, perché il tipo, anche prima delle tante lauree, era davvero testardo. Primo incontro sulla pista di Lugano dove Pietro Paolo Mennea, nell'Italia B, aveva salutato, con rammarico, la nazionale di atletica italiana che volava verso le Olimpiadi del Messico. Lui cominciava una storia da grande re delle piste, molti di noi scoprivano il mestiere che volevano fare. Lui correva fortissimo, a noi bastava camminare per vederlo soffrire, sudare, imprecare, vincere, stravincere 350 giorni all'anno.
Quando voleva dare qualcosa di più ti lasciava sedere nella stanza dei massaggi, e allora raccontava la sua vita, badando sempre al tempo. Non poteva arrivare in ritardo all'allenamento nel sacro convento di Formia, all'università di Carlo Vittori, l'uomo di tutte le rivoluzioni nella metodologia del lavoro su un campo sportivo, calcio o atletico non contava, ateneo che ha fatto storia dello sport nel mondo perché quando il professore, nei convegni, raccontava ai colleghi, anche agli increduli americani, delle sedute di lavoro con il ragazzo di Barletta, si sentiva sempre domandare, alla fine, se il purosangue" era morto.
Vita grande, vita strana, entusiasmante con questa strana coppia che andava all'assalto dei luoghi comuni, dimostrando che potevano cambiare la via metodologica del training, affermando con i fatti che un velocista poteva anche allenarsi molto, poteva andare ben oltre il talento naturale. Spettacolo in pista, affascinante vita in comune seguirli fuori dal campo, anche quando litigavano, anche quando il Prof arrivava con qualche minuto di ritardo sul campo e vedeva Pietro indicare l'orologio.
Erano nati per l'impresa. Accidenti se ci riuscirono alla faccia di considerava Mennea uno stortignaccolo, pur inchinandosi, come il grande Brera, a quell'Aristotele così diverso da Platone Berruti re di Roma 1960. Da Lugano 1968 a Helsinki 1971, i primi europei per lui e per noi, a Seul 1988, attraversando il cerchio di fuoco, sfidando e battendo gli americani, sfiorando Borzov, mettendo a sedere tanti pretendenti al trono. La magnifica e strana coppia della nostra atletica viveva nel tumulto. Erano insieme all'esordio olimpico di Monaco nel 1972 quando vinse il bronzo e svegliandosi la mattina dopo i festeggiamenti in un ristorante bavarese scoprì che sui tetti del villaggio olimpico c'erano i franchi tiratori incapaci, però, di impedire la strage degli atleti israeliani. Erano insieme a Montreal, Giochi del 1976, i primi per gli inviati di questo Giornale quando c'era da raccogliere e non ci furono medaglie, una rabbia mai nascosta che divenne pubblica quando Pietro, una settimana dopo, vinse al meeting di Viareggio con un tempo migliore di quello di Quarrie, vincitore in Canada.
Si inseguivano per soffrire insieme, per tarare il motore della vespa che Vittori cavalcava cercando di portarlo al massimo dei giri, finendo nei sacri fiumi di porpora quando il corridore superava il centauro che poi si giustificava dicendo di aver sbagliato ad inserire le marce. Mennea visse queste splendide baruffe culturali per tutta la sua vita sportiva, a Fiasconaro bastò un anno soltanto col Prof, record del mondo sugli 800 all'Arena di Milano, per scegliere altre colline del sudore.
L'Universiade al Messico, quel record mondiale di 19"72 del 12 settembre 1979, un primato rimasto imbattuto per 17 anni, ci fece scoprire il Mennea più indecifrabile. Noi impazziti cercando di far capire l'impresa alla redazione, lui bello e solare in mezzo al campo a dedicare l'impresa a muse misteriose. Anche quella volta non fu festa piena. Vittori era convinto che valesse 19"60 e allora altri fiumi di porpora. Non certo come quelli di Mosca dopo l'eliminazione in semifinale sui 100. Era una Olimpiade malvagia, boicottata, ma su Pietro si puntava tanto. Impossibile stanarlo dal villaggio, sentivi soltanto l'eco di quelle tormentate sedute che sembravano mettere in guerra spiriti nati per l'impresa. Ci pensò il grande Borzov a farlo meditare. Gli disse che lo vedeva vuoto, sperduto, e regalandogli l'orsetto mascotte chiamato Misha provò a rincuorarlo. Ci riuscì per davvero. Se al Messico aveva la corsia centrale, allo stadio Lenin gli toccò l'ottava corsia.
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