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Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione

Sono tanti, troppi, gli atleti rimasti uccisi. Su tutti i pugili. Poi ciclisti e motociclisti

Non solo Lambrecht. Quella strage silenziosa chiamata passione

È una strage silenziosa, quella degli atleti. Di sport si muore e basta un attimo, quando meno te l'aspetti, che sia gara o allenamento. C'è solo un lungo elenco di vinti, non contano i risultati tantomeno i vincitori. Il fato prende il sopravvento, si compete su un confine così labile che può accadere a chiunque, come al ciclista belga Bjorg Lambrecht, morto lunedì al Giro di Polonia. Aveva 22 anni, pare pedalasse in gruppo a trenta all'ora e la morte era lì dietro l'angolo, nemmeno si fosse lanciato in discesa libera a Kitzbuhel o stesse effettuando un sorpasso avventato sull'asfalto di Assen. Eppure in bici si muore, i ciclisti sono nudi, si reggono su due tubolari da 22 millimetri e l'obbligatorietà del casco permanente è arrivata solo nel 2006, per provare a tamponare l'emorragia. È un'ecatombe silente, come quella dei dieci corridori belgi deceduti negli ultimi dieci anni o la nutrita lista che l'Italia continua a piangere. Dalla disgrazia di Michele Scarponi in allenamento alla discesa funesta di Fabio Casartelli al Tour, senza scordare Ravasio, Galletti, Casarotto e Fazio.

La strada occulta le insidie, la velocità estende i rischi di una corsa a tutta, ma per un crudele paradosso uno spazio ristretto finisce per uccidere molto di più. Succede al chiuso, sul quadrato della nobile arte, che solo qualche giorno fa si è portata via due boxeur in un colpo solo. Prima il russo Dadashev poi l'argentino Santillan, entrambi collassati sul ring dopo i rispettivi incontri, passando dal coma alla morte per i durissimi colpi incassati. Senza fermarsi prima che fosse troppo tardi, bensì alzando bandiera bianca davanti alla vita. Il pugilato ha portato al decesso centinaia di sportivi, da quando nel 1865 furono introdotte le regole del marchese di Queensberry, genitrici della boxe moderna. Le riprese sono state ridotte da 15 a 12, ma alla storia restano mazzate fatali, con emorragie cerebrali, traumi irreversibili alla testa ed edemi al cervello. Quella delle lesioni cerebrali è una piaga con cui fa i conti anche chi pratica football americano o rugby, ma anche qui il colpo spesso sfocia in tragedia, come successo l'estate scorsa al rugbista Fajfrowski, deceduto dopo un duro placcaggio, o all'ex centro di Pittsburgh e Kansas Mike Webster, stroncato nel tempo da encefalopatia traumatica cronica proprio per lo sport a cui ha dato tutto.

E poi c'è il calcio, dove si parla meno d'impatto letale perché è il cuore a tradire, a fermare la corsa di chi insegue un pallone, come il nostro Morosini e lo spagnolo Puerta, fino ai misteriosi decessi in camera da letto di Jarque e Astori. Infine la pista, dove respiri l'azzardo e corri contro il tempo per rasentare il pericolo, che ci sia asfalto bagnato o un manto di neve e ghiaccio. Oltre alle imprese, i ricordi di tutti gli appassionati sono segnati dalla sorte beffarda, come quella toccata a Leonardo David a Cortina, ad Ayrton Senna sul circuito di Imola o a Marco Simoncelli nella lontana Sepang.

L'elenco è lunghissimo, lo sport proprio spietato.

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