Roma, 30 giugno 1990
Il trasferimento da Marino, colli laziali, sede scelta per il lungo ritiro azzurro, all'Olimpico di Roma, era diventato una imprevista e suggestiva processione tricolore. «Viaggiamo tra due ali di folla di tifosi che ci scortano e sventolano le bandiere», il racconto stregato di Gigi Riva, team manager della Nazionale di Azeglio Vicini, scelto da Matarrese appena arrivato in federazione. Quella sera di fine giugno andò proprio così: un viaggio lungo e rallentato per arrivare all'Olimpico e affrontare l'Irlanda di Jack Charlton, fratello di Bobby, il vulcanico ct che per tutta la sfida continuò a protestare con l'arbitro portoghese. Quella notte nacque anche la Schillacimania. Già perché Totò doveva essere un comprimario rispetto alla prima coppia di attaccanti schierata dal Ct contro l'Austria (Carnevale-Vialli) nella sfida inaugurale. E invece, col passare delle prove, e grazie al primo sigillo del centravanti siciliano, l'Italia delle notti magiche battezzò Schillaci a suo eroe e decise che quel ragazzotto semplice con gli occhi spiritati sarebbe diventato il simbolo di un intero Paese.
Così quella sera, all'Olimpico, Schillaci attese con pazienza, come il cacciatore dietro la siepe, la sua preda preferita. Seguì con attenzione la discesa di Giannini, si fece da parte quando vide l'intervento di Donadoni e quel tiro respinto dal portiere irlandese. Allora scattò come una molla e col piattone destro mirò l'angolo per firmare il decisivo 1 a 0.
Qualche tempo dopo, smaltita la sbornia da mondiale, Totò, figlio del Cep di Palermo, il quartiere più popolare della città, firmò un racconto che tradiva l'umiltà del
personaggio. «In quei giorni ero in uno stato di grazia calcistica: appena toccavo la palla, era gol. E pensate che io mi sarei accontentato di restare seduto in panchina durante tutto il mondiale», riferì ai giornali dell'epoca.
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