La voce della verità potrebbe anche essere quella di Giorgio Chiellini: «Non siamo ancora a livello delle migliori tre-quattro squadre europee. Però l'eventuale vittoria dell'Europa League ci farebbe crescere in autostima e segnerebbe un percorso. Il nostro modello deve essere l'Atletico Madrid, arrivato adesso a giocarsi la Champions dopo avere vinto due volte proprio la coppa che vorremmo portare a casa noi a metà maggio: gli spagnoli sono anche la dimostrazione che i soldi non sono sempre fondamentali».
Magari Conte non sarà d'accordo al cento per cento, però le parole del toscano con il numero 3 sulla schiena non fanno una grinza: grande (grandissima) in Italia, la Signora quest'anno ha balbettato più del previsto in Europa e anche contro il Lione non è che abbia fatto sfracelli. «Serve più personalità da parte di tutti, siamo in cammino», aggiungeva pochi giorni fa lo stesso Chiellini. Il quale giustamente rivolge la propria attenzione al campo ma, essendo anche laureato in Economia, non disdegna un occhio ai numeri. E qui magari si comincia a intuire che le beghe nostrane servono più che altro a creare alibi per giustificare risultati non sempre all'altezza. Non più tardi di un paio di settimane fa Benitez e Conte baruffavano sui conti delle rispettive società ognuno tirando acqua al proprio mulino: poi sposti lo sguardo un po' più a ovest e scopri che l'Atletico Madrid - dove giocano Diego e Tiago, due che alla Juve facevano fatica a essere titolari nelle partitelle del giovedì a Vinovo - ha dichiarato nell'ultimo esercizio un fatturato pari a 120 milioni, parecchio meno della metà di quello bianconero (283,8) e pressoché identico a quello della società di De Laurentiis. Quanto al monte stipendi, ancora applausi per la società del presidente Enrique Cerezo: 65 milioni per i biancorossi, 115 per i bianconeri (in Italia, nessuno come loro) e 74 per gli azzurri.
Insomma, per dirla (anche) con Marotta, «l'Atletico è la dimostrazione che nel calcio non sempre chi ha più soldi vince. Servono tanti altri fattori, dall'entusiasmo all'organizzazione». Avanti, allora. In semifinale contro il Benfica (due i precedenti con i portoghesi: eliminati da Eusebio nella Champions '68 ma nel '93 la vittoria che portò alla terza Uefa), pensando prima all'Udinese (lunedì sera) e al Bologna. Sognando una doppietta scudetto-Europa League che possa poi aprire il varco ad altri successi fuori dai confini: la Uefa targata 1977 (Zoff, Cuccureddu, Gentile, fino a Boninsegna, Benetti, Bettega) fu il successo che diede alla Juve una nuova dimensione, permettendole poi di pensare in grande e di vincere altrettanto. Adesso potrebbe essere arrivato il momento di mettere in scena qualcosa del genere: la Signora non porta a casa altro che non siano trofei nazionali dal 1996 e, obiettivamente, per una società del genere diciotto anni sono un'eternità pur tenendo conto della concorrenza, di Calciopoli e delle difficoltà che ne sono seguite.
L'Atletico Madrid è lì che indica la via, alla Juve spetta ora raccoglierne il testimone e arrivare fino in fondo, per di più potendo disputare la finale in casa: starà a Conte adesso gestire al meglio le forze dei suoi, restituendo brillantezza a un centrocampo che - magie da fermo di Pirlo a parte - pare avere la lingua a penzoloni già da un pezzo, augurandosi che Tevez trovi finalmente un gol anche in Europa e capendo se Osvaldo meriti altre chance visto che gli zero minuti concessigli giovedì sono apparsi una bocciatura bella e buona. Certezze ce ne sono, incognite pure: per diventare davvero grandi davvero, però, si passa anche da qui.
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