"Quando mi accorsi che sotto il telo c'era un ragazzo ancora vivo..."

Non dimenticherò mai quel momento: "Respira!". E chiamai i poliziotti belgi che parevano inebetiti

"Quando mi accorsi che sotto il telo c'era un ragazzo ancora vivo..."

«Chissà mai cosa potranno rivelare quei mattoni rossi e smussati che, rovinando sulla pista d'atletica, hanno firmato la condanna di tanta gente» : a distanza di 30 anni ricordo ancora come cominciai l'articolo che uscì su Il Giornale Nuovo all'indomani della strage dell'Heysel dove fui testimone smarrito e furente d'una carneficina folle, diabolica, eppure prevedibile. Il dramma si consumò alle 19,32 di quel maledetto 29 maggio 1985 quando il muro e la recinzione del settore Z della curva nord si sbriciolarono sotto il peso dei tifosi juventini che cercavano disperatamente di sottrarsi alla furia assassina degli hooligans inglesi, in preda all'alcool e alle droghe. Un macello. Zeta come l'ultima lettera dell'alfabeto e della vita. Mai potrò dimenticare quei due giovani che spirarono sotto il mio sguardo con le labbra spalancate in cerca d'ossigeno e l'addome rigonfio per il peso sopportato. Uno dietro l'altro. E porterò sempre con me il ricordo di quel ragazzo con la maglietta a righe orizzontali bianche e blu, dato per morto, ricoperto con un panno grigio, e che invece sussultava. «Questo è vivo, questo è vivo», urlai a un poliziotto che girava a vuoto, intontito pure lui. Di medici neanche l'ombra. Un paio di giorni dopo seppi che quel tifoso juventino era arrivato da Pontedera o Ponsacco. Più il tempo passava e più aumentavano i morti posti sulle barelle dietro la tribuna. Tutti con i ventri dilatati, abnormi. La mattina dopo, sotto la curva della morte, erano evidenti i segni della tragedia. Accanto a qualche fiore, c'erano brandelli di stoffa, bandiere inanimate, sciarpe, scarpe. Più di ogni altra cosa mi colpirono queste, forse perché collegai quelle immagini a una foto di un campo di sterminio sotto il nazismo. Anche all'Heysel fu omicidio di massa. C'era pure, lì per terra, un libro giallo dal titolo che mi procurò una sferzata di adrenalina: "I muri parlano" . Solo una combinazione? A un paio di gendarmi che mi volevano allontanare, vomitai addosso tutto il risentimento che mi portavo dentro dalla sera precedente. C'erano solo due porte in quel settore Z: l'una d'un metro, l'altra più piccola se possibile. E fuori da quei due cunicoli, l'unica via di fuga possibile, i poliziotti manganellarono quanti cercavano scampo verso l'esterno, verso la vita. Già i poliziotti. Erano pochi a quell'ora. La gran parte, e lo dico da testimone, era intenta a mettere qualcosa sotto i denti. I rinforzi arrivarono in colpevole ritardo. Il ministro degli interni Nothomb e il borgomastro Brouhon affermarono che c'erano mille agenti pronti a intervenire. Non è vero. Eppure nel corso del tragitto in pullman dall'albergo allo stadio non facemmo altro che vedere gruppi di tifosi inglesi ubriachi fradici con le strade, i marciapiedi e le piazze assurti a letamaio di vomito, piscio e bottiglie di birra. Un tappeto di bottiglie. All'inizio dello scempio s'era capito poco dalla tribuna stampa. Allora chiesi a un collega francese di prestarmi il cannocchiale e capii.

La partita? Chissenefrega. L'Inghilterra non fece sconti e debellò con metodi durissimi gli hooligans. In Italia, a 30 anni di distanza, il derby di Roma ha messo per l'ennesima volta a ferro e fuoco la capitale. Poveri noi.

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