Federico Malerba
Roma Quattro anni fa una sconfitta con la Lazio in coppa Italia, anche se allora si trattava della finale, diede il là all'azzeramento tecnico dei primi due anni di gestione americana della Roma. Da allora le strategie di Pallotta sono parzialmente cambiate e i giallorossi sono cresciuti senza più scendere dal podio del campionato, ma non sono mai riusciti a fare la cosa più importante: vincere.
È stato il cruccio di Garcia e lo è particolarmente di Luciano Spalletti che quindici mesi fa, ripresentandosi nella capitale, disse che era tornato per «finire il lavoro». All'inizio alludeva a quello scudetto che gli sfuggì nel 2008, poi ha toccato con mano la solidità della Juventus e quest'anno si sarebbe accontentato anche di un'Europa League o di una coppa Italia: un trofeo qualunque, pur di interrompere una serie di piazzamenti senza gloria che a Trigoria dura ormai da nove anni.
La Roma si è buttata via in otto giorni, dal derby d'andata di coppa Italia alla prima partita col Lione, passando per la sconfitta interna col Napoli. In quel momento il suo condottiero ha perso la testa e ha reagito d'istinto tentando un «all-in» che ora gli si ritorce contro: «Resto solo se vinco un titolo», ha iniziato a ripetere Spalletti, il cui contratto scade il 30 giugno e che fino a poco tempo fa la Roma gli avrebbe rinnovato più che volentieri. Lui ora dice che lo ha fatto per motivare la squadra, per i suoi detrattori si tratta di una strategia che mira al divorzio, fatto sta che le parole pronunciate dal tecnico martedì sera («il futuro è ancora nelle mie mani») sono state ormai superate dagli eventi.
Adesso è la Roma a non aspettare più Spalletti, che in estate parlava della sua squadra come di «una delle più forti che abbia mai allenato», che aveva promesso di essere più chiaro sui suoi programmi all'indomani del derby e che invece, dopo la terza eliminazione stagionale dalle coppe, ritratta dicendo di essere «stato al gioco della squadra forte che deve vincere» e continua a giocare al piccolo Amleto. A meno di un crollo della Juve e di conseguenti ribaltoni l'anno prossimo, il settimo dell'era americana, sulla panchina giallorossa ci sarà il sesto allenatore diverso.
Come quattro anni fa una sconfitta in coppa Italia con la Lazio sarà un buon motivo per voltare pagina: sta arrivando un nuovo direttore sportivo, Monchi, cambierà il tecnico (Mancini più o meno ufficialmente si è offerto, Montella può essere un'idea se lasciasse il Milan mentre tra gli stranieri piacciono Emery, Pochettino e Sampaoli) e cambieranno anche diversi giocatori. Per ironia della sorte insieme a Spalletti saluterà anche Francesco Totti che nell'ultimo anno e mezzo ha vissuto da sopportato in casa e che nell'ennesimo scampolo di partita con la Lazio è sembrato anche un po' appesantito, come se avesse già iniziato a tirare i remi in barca.
Oltre che da Florenzi la continuità cittadina sarà garantita da Daniele De Rossi: che alla fine dovrebbe rinnovare il contratto per altre due stagioni (a stipendio più che dimezzato) e che a 34 anni suonati raccoglierà l'eredità di Totti dopo una vita da «capitan futuro».
In un'intervista pubblicata ieri da Rivista Undici De Rossi ha provato a spezzare una lancia per Spalletti («ha un carattere difficile ma la società deve fare di tutto per tenerlo») e speso parole dolci per il numero 10: «Stare tutti i giorni con lui ti fa sembrare normale l'essere accanto a un calciatore che normale non è». A questa normalità eccezionale la nuova Roma dovrà rinunciare, e dopo un quarto di secolo di certo non sarà semplice.
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