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"Sindrome cinese", la malattia che sbriciola i sogni dei veri tifosi

Dal Milan all'Inter: i flirt di Pechino con il calcio in cerca di guadagni ma pronti al ritiro lampo

"Sindrome cinese", la malattia che sbriciola i sogni dei veri tifosi

La crisi dell'Inter è preoccupante non soltanto per le difficoltà contabili del club ma è un segnale che dovrebbe far riflettere sul sistema Italia e sul lassismo delle istituzioni, statali e sportive, che consentono gestioni a dir poco bizzarre. La proprietà cinese dell'Inter si trova a dover affrontare e risolvere una serie di impegni economici pesantissimi, frutto di valutazioni sbagliate ma di una crisi alla fonte, dell'azienda Suning e delle direttive del governo comunista cinese. Di fronte alla situazione debitoria non ci sono soluzioni: o si vendono alcuni asset o si mette in vendita la società. I cinesi hanno scelto entrambe le ipotesi, hanno ceduto alcuni calciatori richiestissimi sul mercato internazionale e hanno comunicato al mercato internazionale che il club è in vendita. Mentre nel primo caso si sono trovati i compratori di Hakimi e Lukaku, nel secondo, finora almeno, nessuna trattativa è stata avviata anche per le difficoltà di dialogo con imprenditori, i cinesi appunto, che hanno una cultura dell'impresa totalmente diversa da quella del mondo occidentale. Quando il governo cinese definì irrazionali gli investimenti nel calcio straniero pochissimi avvertirono il pericolo. Riporto un passaggio del Financial Times: «... i turbolenti e costosi flirt delle società cinesi con le squadre europee mostrano come le scelte di investimento della seconda economia mondiale siano spesso guidate da una combinazione di opache politiche delle élite, di avventurismo societario e di una genuina ricerca di opportunità di guadagno».

Il progetto cinese di creare il calcio, proprio nel Paese in cui questo giuoco ebbe origine con il nome di cuju, aveva creato entusiasmi in un popolo che, a differenza dei giapponesi, non ha passione principale per il football, secondo quello che riporta la sinologa Mary Gallagher, docente di scienze all'università del Michigan, in Cina si registrano sette campi da calcio ogni 10mila abitanti, in Giappone duecento campi con lo stesso rapporto di persone. Questo non ha ostacolato l'interesse dei milionari cinesi verso il calcio occidentale ma l'euforia degli anni passati si è affievolita portando a dismissioni e abbandoni repentini. In Italia il fenomeno ha riguardato il Milan e l'Inter, per citare gli esempi più clamorosi ed evidenti ma ciò che sconforta, e non viene affrontato dalla critica, è l'atteggiamento delle istituzioni che ha consentito e consente a investitori, anche italiani, di gestire le società con operazioni spavalde, plusvalenze, prestiti, bilanci opachi e/o devastati, aumenti di capitale post operazioni faraoniche, stipendi non versati, pagamenti dilazionati ma su tempi e termini imprevedibili, un repertorio da codice civile e poi sportivo, con la squalifica o la penalizzazione in classifica, mentre invece assistiamo all'allegra brigata che ha rinunciato a un miliardo e duecento milioni di euro garantiti dai fondi di private equity (la Liga spagnola ha incassato il doppio), con una scelta ignorante e presuntuosa che, come minimo, dovrebbe comportare le dimissioni dei responsabili.

Non è accaduto, non accade, non accadrà: la colpa è dei cinesi, loro avrebbero dovuto tenere Lukaku e Hakimi, sprofondare nei debiti, come altri sodali, contemporanei e passati, della nostra serie A, aspettando il compratore e salutando la compagnia, a Parma, a Roma, a Milano, a Genova, a Napoli, a Firenze. In Italia.

La Cina è lontana.

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