Cercavamo un lavoro da abusivi nella Gazzetta di Gualtiero Zanetti e trovammo tre fratelli sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico. Cinquant'anni fa. Una vita. Un ricordo che non svanisce. Notti di eccitazione, ribattute all'alba, buttando all'aria un tavolo per il record mondiale di Giuseppe Gentile (17.10) nelle qualificazioni del triplo, piangendo, il giorno dopo per il nostro Giasone, pronipote del grande filosofo, che poi rifece il record, 17.22, ma non prese l'oro vinto da Prudencio (17.27) sul canguro georgiano Vicotr Saneyev (17.23), agitati per una Olimpiade messicana nata nel sangue di Tlatelolco, ma ancora scossi per quella notte del 16 ottobre che sconvolse la storia dell'atletica, ma anche dello sport.
Sulla pista dove 11 anni dopo Pietro Mennea corse in 19 72 prendendosi quel record del mondo nell'Universiade, vedemmo un jet, Tommie Lee Smith finire i 200 a braccia alzate in 1983, mai nessuno sotto i 20 prima, davanti all'australiano Peter Norman e al gigante di New York John Wesley Carlos. Era storia, rivoluzione in altura, ma niente in confronto a quello che successe il giorno dopo alla premiazione dei 200 mentre noi diventavamo matti per il bronzo di Eddy Ottoz sui 110 ostacoli.
Fu la vera rivoluzione perché i tre uomini sul podio furono onorati dalle medaglie, ma poi perseguitati dalle istituzioni, sorpresi che il più duro verso di loro fosse il miliardario Avery Brundage, per anni presidente del Cio, che pure aveva vissuto una storia simile nel 1936, come capo delegazione statunitense, dopo la vittoria di Jesse Owens nei 100 e nel lungo. Pur in affari coi nazisti si ribellò al trattamento per il campione dei campioni, anche se poi non fece niente quando al ritorno in patria, nel pranzo di celebrazione, Owens e la moglie furono fatti entrare nella sala dalla porta di servizio perché ai neri non era consentito passare da quella principale. E trentadue anni dopo, ancora lui al centro della notte dei tormenti.
Tommie Smith e John Carlos a piedi scalzi, con le calze nere. In mezzo l'australiano Norman, membro dell'esercito della salvezza, ex venditore di torte allo stadio, asmatico, scarpe prese in prestito per tentare nella corsa dopo aver fallito nel football australiano, forse più duro di quello americano. Erano tre meravigliosi campioni. Quando salirono sul podio, dopo i premi, al momento dell'inno americano, ecco la protesta: Carlos aveva dimenticato i guanti neri al villaggio, Smith gli diede uno dei suoi. Pugno chiuso e guantato verso il cielo, testa bassa, mentre Norman mostrava la maglia per solidarizzare con gli operai.
Furono insultasti, spintonati, ma restarono fratelli in arme nella notte più bela della loro esistenza sportiva. Brundage sospese a vita i due americani. Norman subì la persecuzione della sua federazione che lo escluse dai Giochi di Monaco 1972, lo cancellò anche se aveva i migliori tempi, ma poi, come racconta Nicola Roggero, oggi a Sky, nel suo splendido lavoro teatrale 1968 lo sport narra la storia, nel giorno dell'addio a Peter eccoli ancora uniti: Smith e Carlos , in quel 9 ottobre del 2006, portarono la bara dell'uomo che aveva dato loro la mano su quel podio, pagando ogni penale con il razzismo e dissero agli australiani di ricordare ai bambini la sua grande storia, un momento speciale che poi convinse il governo a rivalutare il campione che ora avrà una statua vicino allo stadio di Lakeside di Melbourne.
Per Smith e Carlos la vita fu
durissima, ma tutti e due sono stati rivalutati, hanno potuto allenare, lavorare nell'atletica, anche se negli Stati Uniti, come dimostrano le proteste dei giocatori di football, la storia della discriminazione continua.
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